In Italia i lavoratori poveri sono il 10,8% del totale, contro una media Ue dell’8,8%. L’11,3% degli occupati – a fronte di una media Ocse che si ferma al 3,2% – ha un part time involontario, cosa che ovviamente si traduce in uno stipendio più basso rispetto a quello di cui avrebbero bisogno. Il 68,9% dei nuovi contratti attivati nel 2021 sono a tempo determinato e solo il 14,8% a tempo indeterminato. Nell’insieme il lavoro atipico, cioè tutte le forme di contratto diverse da quello subordinato a tempo indeterminato full time, rappresenta l’83% delle nuove assunzioni con un aumento del 34% negli ultimi 12 anni. L’8,7% dei lavoratori (subordinati e autonomi) percepisce una retribuzione annua lorda di meno di 10mila euro mentre solo il 26% dichiara redditi annui superiori a 30mila euro, valori molto bassi se comparati con quelli degli altri europei. E’ quello che emerge dal Rapporto Inapp 2022 – Lavoro e formazione, l’Italia di fronte alle sfide del futuro, presentato alla Camera dal presidente dell’ente pubblico di ricerca Sebastiano Fadda alla presenza della nuova ministra del Lavoro Marina Calderone.
Il rapporto arriva mentre il nuovo governo valuta modifiche al reddito di cittadinanza, nel nome della linea di pensiero del centrodestra secondo cui il sussidio deve andare solo a chi non può lavorare. Ma le politiche attive sono in grado di accompagnare i beneficiari verso il mondo del lavoro? Secondo Fadda no: “Caratterizzate da una prevalenza delle politiche cosiddette ‘passive e uno zoppicante procedere delle politiche cosiddette ‘attive’, rivelano lacune che, nonostante le intenzioni e i piani di rafforzamento dei Servizi per l’Impiego, le rendono incapaci di incidere significativamente e positivamente sulle dinamiche del mercato del lavoro”, ha spiegato Fadda. “Tali dinamiche subiscono spesso distorsioni tali da generare elevati gradi di diseguaglianza sociale e da rendere penosa e angosciata la vita di consistenti fasce della forza lavoro cui l’attuale sistema di welfare non riesce a garantire decenti condizioni né di vita lavorativa né di vita privata”.
Nel 2021 solo il 14,8% dei nuovi contratti sono stati a tempo indeterminato. Le attivazioni di contratti stabili erano il 16,7% di quelli totali nel 2020 e il 15,2% nel 2019. Nel 2018, prima dell’introduzione del Decreto dignità e della stretta sulle assunzioni a termine i contratti a tempo indeterminato erano il 14,6% del totale. Il dato sulla prevalenza dei contratti a termine risente anche del fatto che spesso sono di durata molto breve e quindi un singolo lavoratore in un anno ha più attivazioni.
Se consideriamo il 40% dei lavoratori con reddito più basso, il 12% non è in grado di provvedere autonomamente ad una spesa improvvisa, perché non ha risparmi o capacità di ottenere credito. Il 20% potrebbe fronteggiare al massimo un esborso fino a 300 euro. Quasi uno su tre ha dovuto posticipare cure mediche.
“Malgrado alcuni segnali confortanti”, ha commentato Fadda, “alcune debolezze del nostro sistema produttivo sembrano essersi cronicizzate, con il lavoro che appare intrappolato tra bassi salari e scarsa produttività. Per questo occorre pensare ad una nuova stagione delle politiche del lavoro, che punti a migliorare la qualità dei posti di lavoro, soprattutto per i neoassunti e per i lavoratori a basso reddito, per le posizioni lavorative precarie e con poche possibilità di carriera, dove le donne e i giovani sono ancora maggiormente penalizzati”. La produttività del lavoro – si legge nel rapporto – è cresciuta più dei salari, quindi “non solo la sua dinamica è stata contenuta, ma non sembrano nemmeno aver funzionato i meccanismi di aggancio dei livelli salariali alla performance del lavoro“.
Secondo lo studio Inapp la flessibilità “buona” ha portato a un’occupazione stabile a distanza di tre anni dall’inizio dell’impiego precario per ‘circa il 35/40% dei lavoratori (in tre fasce di tempo considerate a partire dal 2008-2010 fino al 2018-2021) mentre una quota tra il 30% e il 43% ha continuato a svolgere un lavoro precario, il 16-18% ha perso l’impiego ed è in cerca di lavoro mentre sono usciti dal mercato del lavoro il 17% dei precari (nel 2010 la quota era il 3%).