L’organizzazione, ad avviso della Dda della Capitale, era capeggiata da Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro, appartenenti a storiche famiglie di 'ndrangheta. Sequestrate 25 società - tra bar, ristoranti, pasticcerie, panifici - per un valore di 100 milioni di euro
Le mani degli uomini della locale di ‘ndrangheta a Roma era ormai finite nel business dei bar e della ristorazione. Un’infiltrazione pervicace e ricchissima, ad avviso della procura antimafia della Capitale, che ha chiesto e ottenuto l’arresto di 26 persone e il sequestro di venticinque società per un valore totale di circa 100 milioni di euro. In quello che può essere ritenuto il “secondo tempo” dell’operazione che a maggio aveva colpito la prima ‘locale’ di ‘ndrangheta nei quartieri capitolini, i procuratore aggiunto Michele Prestipino e Ilaria Calò contestano agli indagati – a vario titolo – i reati di associazione mafiosa, sequestro di persona e fittizia intestazione di beni.
L’organizzazione, ad avviso degli inquirenti, era capeggiata da Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro, appartenenti a storiche famiglie di ‘ndrangheta originarie di Cosoleto, centro in provincia di Reggio Calabria. Il clan aveva ottenuto dalla “casa madre” in Calabria il via libera ad operare con i metodi tipici delle cosche. Lo scopo dell’organizzazione, secondo quanto emerso dall’inchiesta, era quello di acquisire la gestione e il controllo di attività economiche nei più svariati settori – ittico, panificazione, pasticceria, ritiro delle pelli e degli olii esausti – facendo poi sistematicamente ricorso ad intestazioni fittizie al fine di schermare la reale titolarità delle attività, e di commettere delitti contro il patrimonio, contro la vita e l’incolumità individuale e in materia di armi.
L’obiettivo era inoltre di affermare il controllo egemonico delle attività economiche sul territorio (in particolare nel settore della ristorazione, dei bar e della panificazione), realizzato anche attraverso accordi con organizzazioni criminose omologhe. Lo scherma era quello quindi di stringere patti mafiosi e agganciare decine di prestanome per infiltrare l’economia della Capitale. È evidente, ad avviso del giudice per le indagini preliminari Gaspare Sturzo, come “sussista l’aggravante dell’agevolazione mafiosa contestata”, aggiunge, chiarendo il ruolo dei prestanome impiegati “al fine di non fare emergere la struttura dai ‘patti mafiosi’ volti a garantire gli accordi imprenditoriali” per “infiltrare l’economia romana mediante iniziative imprenditoriali dirette e controllate da Vincenzo Alvaro quale ‘mente commerciale’ della locale”.
Proprio Alvaro, intercettato, diceva: “Bisogna trovare un polacco, un rumeno, uno zingaro a cui regalare 500/1000 euro a cui intestare sia le quote sociali e le cose e le mura della società”. Nel dialogo ascoltato dagli uomini della Dia, Alvaro prosegue: “Poi tutte queste cose che dicono e ti attaccano sono tutte minchiate. Io ho fatto un fallimento di un miliardo e mezzo e ho la bancarotta fraudolenta. Mi hanno dato tipo l’art. 7 e poi mi hanno arrestato… mi hanno condannato… e ancora devo fare l’appello… vedi tu… è andato in prescrizione. Le prescrizioni vanno al doppio delle cose”, aggiunge.
Tra i 26 arrestati c’è sua figlia, Carmela Alvaro, alla quale viene contestato – in concorso con un altro indagato – di aver privato “della libertà personale un uomo nominato dall’amministratore giudiziario come preposto alla gestione degli incassi dell’impresa, sottoposta a sequestro preventivo”. In particolare, si legge nel capo di imputazione, “dopo aver dato in escandescenza con urla e atteggiamenti aggressivi tali da intimidire l’uomo, lo tenevano bloccato per circa quindici minuti all’interno dei locali di via Eurialo” al Tuscolano abbassando la saracinesca e quindi impedendogli di uscire con “un atteggiamento tale da intimidirlo”.
Solo dopo circa quindici minuti “la saracinesca veniva rialzata grazie all’inatteso arrivo del fornitore del latte, circostanza che offriva all’uomo – si ricostruisce nell’ordinanza – l’occasione per uscire dai locali”. In un’occasione la donna, per far rinunciare all’incarico di preposto alla gestione un uomo che era stato nominato dall’amministratore giudiziario, con tono intimidatorio aveva detto: “Non devi toccare i miei soldi, sei un infame, servo dello Stato”. E ancora: “Allo Stato infame non lascio niente, brucio tutto”.