Tre agenti ai domiciliari, altri sei sospesi. Un poliziotto coinvolto già condannato per un episodio simile. E il medico e gli infermieri, ad avviso dell'accusa, guardarono senza intervenire. Il gip: "Trattamento inumano e degradante". Il Sappe: "Non trarre affrettate conclusioni"
Uno stivale sul volto per bloccarlo a terra e renderlo immobile mentre un gruppo di agenti della Polizia penitenziaria lo torturano con calci e pugni. Tutto mentre un medico, gli infermieri e altri colleghi guardano senza muovere un dito. È accaduto nel carcere di Bari il 27 aprile scorso a un detenuto con problemi psichiatrici che dopo aver dato fuoco al materasso della sua cella è stato pestato selvaggiamente da diversi agenti penitenziari al punto che la procura ha contestato anche il reato di tortura.
Per tre di loro – Domenico Coppi, Raffaele Finestrone e Giacomo Delia – il giudice per le indagini preliminari Giuseppe Montemurro ha disposto gli arresti domiciliari. E per Delia, in realtà, non si tratterebbe della prima volta: nel suo casellario giudiziale, infatti, compare una condanna irrevocabile a un anno di reclusione e un anno di interdizione dai pubblici uffici per i reati di abuso di ufficio in concorso, lesioni personali in concorso, abuso di autorità contro detenuti per un episodio avvenuto nel 1997 nel carcere di Taranto.
Il giudice inoltre ha disposto anche la sospensione temporanea per altri sei agenti: Antonio Rosati e Giovanni Spinelli dovranno togliere la divisa per un anno, mentre Francesco Ventafridda, Michele Lido, Leonardo Ginefra e Vito Sante Orlando per 8 mesi. Nel registro degli indagati, però, sono complessivamente 15 le persone iscritte: tra loro anche il medico di turno e gli infermieri in servizio quella notte nel carcere barese che avrebbero assistito al pestaggio senza muovere un dito e senza denunciare l’accaduto. Non solo.
Nessun referto sarebbe stato redatto quella notte, nonostante la vittima delle violenze sia stato letteralmente trascinato per le braccia nell’infermeria che distava solo pochi metri dal punto in cui il detenuto è stato, ad avviso dell’accusa, torturato. Nemmeno i poliziotti avevano informato di quanto accaduto la direzione. Anzi, sfogliando le carte dell’inchiesta, emerge che due dei poliziotti indagati avevano presentato una relazione a proposito dell’intervento effettuato a seguito dell’incendio, nella quale non solo non c’era una parola sull’uso della forza nei confronti del carcerato, ma anzi avevano spiegato che “una volta riusciti a tirar fuori dalla stanza e a mettere in salvo il detenuto, evidentemente impaurito e in stato di confusione, provvedevano ad accompagnarlo immediatamente nel locale infermeria”.
Tutto, insomma, sembra essere stato insabbiato. A far deflagrare la vicenda è stato lo stesso detenuto quando, circa due settimane dopo l’accaduto, è stato convocato dal direttore del carcere per un provvedimento disciplinare: in quell’occasione ha raccontato del pestaggio ai vertici dell’istituto. Il direttore del carcere e il comandante della polizia penitenziaria non hanno perso tempo: sono stati loro ad analizzare le registrazioni di quella notte e a informare tempestivamente la procura dell’accaduto. Ed è proprio da quelle immagini che emerge la brutalità dell’evento.
Nella loro informativa, i carabinieri delegati a indagare sull’episodio hanno descritto nei minimi dettagli quanto è avvenuto in soli tre minuti: “Il Coppi – si legge nelle carte dell’inchiesta – dopo aver sferrato il primo schiaffo, sferra un calcio con il piede destro colpendo il detenuto sul suo posteriore; un secondo schiaffo sulla guancia destra; un secondo calcio con il quale attinge nuovamente il detenuto nella parte posteriore del corpo; infligge un terzo schiaffo, sempre sulla parte destra del volto del detenuto. Dopo l’ultimo schiaffo il detenuto, che è trattenuto (per il bavero dell’indumento indossato) dal lato sinistro dall’assistente capo coordinatore Delia Giacomo, si sbilancia verso lo stesso Delia che sembra tirarlo verso di sé, tanto da rovinare sul pavimento sul fianco sinistro, con lo sguardo rivolto verso l’infermeria”.
Ma c’è di più. Una volta a terra le violenze proseguono: diversi agenti avrebbero colpito l’uomo con calci in diverse parti del corpo fino al momento in cui l’agente Finestrone si posiziona davanti al detenuto – steso e immobilizzato – e “assumendo la classica posizione del calciatore che sta per colpire la palla” sferra “un violento calcio in pieno viso al detenuto (si nota la testa proiettata all’indietro dopo il calcio) che istintivamente porta entrambe le mani e le braccia a protezione della sua testa”. Evidentemente, per gli agenti, non è ancora abbastanza: altri continuano a colpire con calci l’uomo che ha gli scarponi degli agenti che lo tengono bloccato al pavimento premendo su un braccio e poi sulla faccia.
Per il gip Montemurro nei confronti degli agenti Coppi, Delia, Finestrone, Rosati, Spinelli e Ventafridda è certamente ipotizzabile il reato di tortura per aver sottoposto per circa quattro minuti all’uomo – che in quel momento di trovava “in stato di privazione della libertà personale” – un “trattamento inumano e degradante”. Quelle violenze secondo il magistrato “sono state realizzate, in più riprese” e in grado di procurare oltre alle “acute sofferenze fisiche” anche “un verificabile trauma psichico” come è facile intuire dalle immagini che ritraggono la vittima “rannicchiata in posizione fetale”.
Fotogrammi che mostrano per il giudice un “oggettivo e assoluto disvalore oltre che di particolare ripugnanza”. La particolare entità di quelle violenze, infine, costituisce per il giudice l’indizio di un rischio che ciascuno dei poliziotti indagati possa commettere nuovi atti di violenza, ma non solo. Nelle carte si legge di “una disarmante naturalezza nell’adoperare o nel consentire che altri adoperassero violenza nei confronti del detenuto, a riprova di un atteggiamento di prevaricazione e di abuso che parrebbe essere tutt’altro che occasionale”.
Di tutt’altro avviso il Sappe, il sindacato autonomo degli agenti penitenziari: “Invito tutti a non trarre affrettate conclusioni prima dei doverosi accertamenti giudiziari. La presunzione di innocenza è uno dei capisaldi della nostra Carta costituzionale e quindi evitiamo illazioni e gogne mediatiche. Niente è più barbaro dei processi mediatici”, ha scritto in una nota il segretario generale Donato Capece sottolineando che “in molti casi ed in diverse città detenuti sono stati condannati per calunnia per le false accuse” nei confronti degli agenti.