Abbiamo (ri)pescato un episodio a caso della serie The Crown. Il primo della terza stagione, quello intitolato Olding, dove si narra della possibilità che il primo ministro laburista, Harold Wilson, fosse una spia del KGB. E, ça va sans dire, è semplicemente magistrale. Come del resto tutta la seria ideata da Peter Morgan, ritratto intensamente iconografico senza sconti storici e morali sulla vita della regina Elisabetta e della famiglia reale inglese. Proprio nelle ore in cui The Crown viene travolta dalle polemiche inerenti i nuovi episodi della quinta stagione (in Italia su Netflix dal 9 novembre), un’apologia volontaria su uno dei rari gioielli in streaming, piovuti con l’avvento delle piattaforme online, va fatta senza remora alcuna. Certo, la premessa è che vi tocca leggere un passatista o tradizionalista che dalla forma racconto del film da 90 minuti fatica a staccarsi. Ebbene, il primo e più evidente pregio di The Crown è che oltre alla precisione e alla rispettosa cura del dettaglio (nella cronaca, nel dialogo, oggettistico, scenografico, ecc…), oltre alla capacità di parificare, con andamento sinuoso e puntuale, le sottotrame al filo principale della privata quotidianità di Elisabetta e del principe Filippo, c’è come un ragionamento formale forte, connotato, ricorrente di un’idea seriale capace di miscelare la grazia compositiva di un’inquadratura con l’armonica apertura e chiusura di ogni singolo episodio come se bastasse a se stesso.
Una dilatazione a fisarmonica che spesso segue i dettami della suspense o più banalmente l’interpunzione sorprendente dei fatti storici eclatanti. Nell’episodio Olding, ad esempio, se da un lato è prepotente la detection rispetto al presunto tradimento patriottico del neo primo ministro Wilson, che avrebbe filtrato coi russi da anni; dall’altro è il corollario familiare reale a irrobustire il senso del sospetto con la morte (vera e simbolica allo stesso tempo) del conservatore amico del real casa Winston Churchill. Che poi l’episodio Olding si chiuda con un colpo di scena che in altri tempi sarebbe valso degnamente il prezzo del biglietto di un buon film, dà l’idea della grandezza del lavoro oculato di Peter Morgan e soci. Altro dato eccellente, spesso criticato: il casting. Ecco, non so se avete presente The queen di Stephen Frears dove Helen Mirren fa di tutto per rendere Elisabetta un’austera stronza nei modi e nell’atteggiamento corporeo con la solita interpretazione dove l’attore è tutto e il resto è meno di niente. In The Crown sia con Claire Foy che con Olivia Colman (attendiamo Imelda Staunton, ma se tanto mi dà tanto) il magnetismo caratteriale della regina è incastonato in un intarsio generale in cui quel privato così improvvisamente visibile si fa immagine pubblica in continuo perenne confronto con la realtà politica quotidiana. Insomma non si imbalsama la sovrana e la sovranità nell’ istrionismo e nell’adorazione, ma la si fonde nel tempo e nella storia adoperando gli stilemi del cinema classico e basico. Chiudiamo con un paio di riferimenti d’atmosfera. Si dirà, ancora sulla precisione dei dettagli. Sì, è così. Eppure la Londra e l’Inghilterra di The Crown si percepisce sulla pelle e la si annusa con il naso. Quel mood da foggy day britannico è tutto nella cifra verista del sestetto omogeneo di direttori della fotografia che si sono succeduti nelle cinque stagioni. Mentre l’odore di quelle stanze legnose e intabaccate lo si sente sin quasi sui vestiti. Concedeteci un post scriptum: la visione di The Crown varrebbe soltanto per averci fatto comprendere la rozza, sgraziata, presuntuosa maleducazione del Principe Filippo tanto amata da Elisabetta, ma anche tanto inadeguata per il magico idealizzato mondo reale. Dato privato pubblico in realtà mai smentito da Buckingham Palace o da biografi ufficiali del defunto principe. Insomma una serie per nulla prevedibile e ben poco istituzionale, senza mai mancare di rispetto al mito.