Hometown è un docufilm tragico, ma di struggente nostalgia. È fra i più applauditi alla Festa del Cinema di Roma. Valerio Cappelli, critico molto acuto del Corriere della Sera mi fa: “Devi vederlo assolutamente”. Aveva ragione.
Il primo brutto ricordo di Roman è legato alla macchina da scrivere del padre. Grazie a quello strumento aveva imparato l’alfabeto da bambino prima degli altri. Gliela confiscarono i nazisti. Ricorda di quando li prelevarono e li “murarono” dentro il ghetto dentro la città. Fuori la Propaganda aveva piazzato dei grandi schermi per lasciare scorrere immagini abominevoli: ebrei pidocchi, portatori di tifo, eccetera, ecco perché bisognava stare alla larga.
Dentro il ghetto, loro cercavano solo di sopravvivere alla meno peggio. Anche ascoltare una melodia strimpellata da strumenti sgangherati come facevano gli zii di Roman poteva essere un palliativo alla sofferenza. Il piccolo Roman riuscì a fare un buco nel filo spinato che non era elettrificato per andare a comprarsi francobolli per la piccola collezione, ma soprattutto era il tentativo di aggrapparsi a una normalità ormai svanita.
“Rischiavo la vita per un francobollo”, si rivolge all’amico d’infanzia Horowitz. Insieme fanno un lavoro di scavo profondo nella memoria. Camminando per le strade di Cracovia, i due amici riallacciano i fili del passato e ricordano i momenti più terribili. Dopo quasi 50 anni tornano sui luoghi che li hanno resi quelli che sono diventati oggi.
Roman Polanski, tra i più grandi registi del secolo; Horowitz, fuggito a New York, è diventato un maestro della fotografia: non avevano mai avuto la possibilità di rincontrarsi in Polonia. Un pugno nello stomaco ascoltare, dalle loro voci, storie drammatiche. Come quella volta che Roman vide un’anziana signora sfinita da una marcia forzata mettersi a camminare a quattro zampe, implorando pietà. Un nazista invece la uccise a bastonate.
Per un pelo Roman scansò una bomba, ma un pezzo di un vetro in frantumi gli si conficcò in un braccio. Ricorda Roman il suo migliore amico di 12 anni deportato nei campi di sterminio, ma ancora non si sapeva che esistessero. Poi prelevarono la sorella e la madre, non li rivide mai più.
Continua il viaggio a ritroso. Polanski riesce a fuggire dal ghetto e si nasconde nella casa di una povera famiglia contadina. Non era ebrea, ma solo per compassione cristiana lo accoglie. C’era poco e niente da mangiare, ma quel poco lo divideva tra i suoi tre figli e Roman mentre Horowitz divenne uno dei bambini più giovani salvati da Oscar Schindler.
Un racconto che a tratti si fa anche divertente. Finita la guerra, Roman si mise a fare lo strillone per vendere giornali. Con i soldi racimolati, si pagava il biglietto per andare al cinema. Il seme del genio incominciò da lì a dare i suoi frutti.
Si tirano le somme, l’amara constatazione: “Non si impara dalla storia. Gli uomini rimangono crudeli. I ricordi sono terribili, ma non li voglio cancellare. Quando li mantieni vivi assumano un che di romantico. Non ho mai voluto fare un film memoir perché avrei dovuto ricostruire i luoghi artificialmente e avrebbe offuscato i miei ricordi. Alla fine sarebbe rimasto ben poco nella mia memoria. Meglio conservare il ricordo intatto e non confrontarlo con un remake cinematografico”.
Della comunità a Cracovia di 70mila ebrei, prima della guerra rimasero poche centinaia. L’ultima domanda a Horowitz: “Se ti fosse data la possibilità di riscrivere la tua vita, cosa cambieresti?” Sorride amaro: “Vorrei nascere alle Hawaii”. La risposta di Roman invece rimane sospesa.
Il film diretto diretto da Mateusz Kudla e Anna Kokoszka-Romer (che sono anche produttori) e co-prodotto e distribuito da Eliseo Entertainment, la società che fa capo a Luca Barbareschi, è un must see. Una lezione di Grande Storia e di cinema. Da Oscar. Intanto da far vedere anche nelle scuole.