In Lombardia è rimasto spiazzato dalla mossa di una coppia di ex: Carlo Calenda e Matteo Renzi hanno messo il cappello su Letizia Moratti, costringendo Carlo Cottarelli al ritiro e creando più di qualche crepa sulla tenuta del partito. Nel Lazio, invece, è costretto a inseguire Giuseppe Conte, che ha messo sul tavolo condizioni subito bollate come inaccettabili per il Nazareno. È una politica dei due forni al contrario quella che sta subendo il Partito democratico. La locuzione risale agli anni ’60 e appartiene a Giulio Andreotti: la Dc usava alternativamente il forno del Pci e quello dei liberali (e pure del Msi) per “sfornare il pane“, cioè portare a casa i provvedimenti più utili ai propri interessi. In questo caso, invece, i dem il doppio forno lo stanno subendo: il risultato è che il partito si trova a navigare senza bussola, nonostante manchi ormai poco alle regionali. E in ballo ci siano le due realtà più importanti del Paese.

La variante Letizia – Eppure una situazione del genere poteva quanto meno essere prevista. In Lombardia, per esempio, la ricandidatura di Attilio Fontana sembrava appesa a un filo solo qualche settimana fa. E invece la mossa di Letizia Moratti ha finito per ricompattare il centrodestra, che ha appena riconfermato la sua fiducia al governatore leghista. A sorpresa, infatti, lo strappo dell’ex sindaca di Milano h alzato la tensione tra le forze che stanno all’opposizione di Fontana. Dopo le dimissioni dalla vicepresidenza della Regione e la candidatura con Azione e Italia viva, Moratti ha provocato praticamente il passo indietro di Cottarelli. L’economista, portato al Senato da Enrico Letta (che lo aveva definito la “punta di diamante” della sua campagna elettorale), sembrava essere il papabile candidato dei dem per la poltrona più alta del Pirellone. E questo nonostante la recente débâcle all’uninominale di Cremona, cioè casa sua, dove è stato nettamente battuto da Daniela Santanché. La candidatura di Moratti, però, ha fatto saltare in aria i piani del Pd, con Cottarelli che ha ufficializzato il suo ritiro non avendo l’appoggio di Calenda e di Renzi. “Avevo detto che, se fosse stata fatta una proposta da un’alleanza ampia e con una condivisone forte di programma, io l’avrei considerata seriamente. Ma così non è stato”, ha detto chiamandosi fuori. Ed escludendo pure il ticket con Moratti: “Così non è possibile. Forse avrebbe potuto essere considerato se il Pd, principale partito della coalizione, avesse potuto esprimere il candidato presidente, la guida politica, tenendo Moratti come vice. Ma neanche questa ipotesi è percorribile, ora”. E dire che solo pochi giorni fa lo stesso Cottarelli aveva aperto le porte a una corsa con l’ex sindaca di Milano: “Lei di centrodestra? Può sempre cambiare idea”, aveva detto alla manifestazione per l’Ucraina organizzata da Calenda all’Arco della pace.

Il bivio lombardo – Il problema è proprio questo: nonostante il suo passato saldamente ancorato alla destra – dal governo di Silvio Berlusconi alla guida di Palazzo Marino – il nome Moratti sembra avere incredibilmente appeal nei ranghi dem. Complici alcuni sondaggi – che la indicano come unica candidata vincente – c’è infatti una parte del partito che abbraccerebbe volentieri la neo renziana. “In queste ore molti del Pd mi stanno chiamando, e non parlo solo di quelli che si immagina più facilmente”, rivelava lei sibillina a Repubblica, nel day after della discesa in campo. Chissà se tra quelle telefonate c’è stata anche quella di Luigi Zanda, che oggi prova a spingere il suo partito proprio tra le braccia dell’ex sindaca del capuolo: bisogna sostenere “il candidato con maggiori possibilità di mandare a casa Fontana e dare una lezione alla Lega”, dice l’ex capogruppo al Senato al Corriere della Sera. Mettendo i dem di fronte a un bivio rischiosissimo: non sostenere Moratti e quindi attirarsi le accuse di Renzi e Calenda di aver collaborato alla vittoria di Fontana e del centrodestra. Oppure accodarsi alla candidatura dell’ex sindaca di Milano, che però è notoriamente una storica esponente dell’altra coalizione: come la prenderebbe la base del Pd? E quanto costerebbe una scelta del genere in termini di consenso a livello nazionale?

Inceneritori e sanità: le condizioni di Conte – Il quadro è diverso nel Lazio, visto che i dem sembrano aver individuato già un possibile candidato in Alessio D’Amato, assessore alla Sanità di Zingaretti. I retroscena, però, parlavano di un partito che attendeva di capire cosa volesse fare Conte, visto che i 5 stelle hanno fatto parte della maggioranza in Regione negli ultimi due anni. Sembra passato un secolo ma ai tempi in cui Zingaretti guidava la segreteria del Pd, Conte coi dem ci ha fatto un governo. È utile ricordarlo visto che l’altro ieri il leader dei 5 stelle non ha usato toni morbidi nei confronti degli ex alleati, anzi. Per le regionali l’ex premier ha dettato condizioni che il Pd semplicemente non poteva accettare. Prima ha rilanciato il suo no all’inceneritore, sapendo di toccare un nervo scoperto tra i dem. Proprio la costruzione del termovalorizzatore a Roma – prevista in un emendamento del decreto Aiuti – è stato uno dei motivi che hanno portato alla caduta del governo Draghi. E infatti prima il sindaco Roberto Gualtieri ha ribadito che l’inceneritore nella Capitale si farà. Poi è arrivato Zingaretti, ad assicurare – nel suo rapporto di fine mandato, che “la Regione Lazio non ha mai autorizzato e mai autorizzerà nessun inceneritore“. Insomma un cortocircuito tutto interno ai dem, messo a nudo da una semplice dichiarazione di Conte. Allo stato, dunque, l’intesa tra i dem e i 5 stelle appare molto difficile da raggiungere. Soprattutto se il candidato sarà davvero D’Amato, potente assessore alla Sanità di Zingaretti, che il leader del M5s non ha mai citato nella sua conferenza di martedì. Almeno direttamente, visto che l’ex premier ha criticato il “connubio perverso tra politica e sanità” nel Lazio, attaccando il settore gestito fino a oggi proprio da D’Amato.

Le aperture di Calenda, i timori del Pd – E se Conte ha attaccato praticamente D’Amato, Calenda ha invece colto la palla al balzo offrendo il suo sostegno al Pd: “Conte ha rotto l’alleanza. Ora che vogliamo fare? D’Amato si è candidato autonomamente e io ho detto che mi va bene. Io non ho posto condizioni“, dice il capo di Azione. Che però 600 chilometri più a nord, a Milano, è lo stesso che ha candidato Moratti spiazzando i dem e Cottarelli. “Sto dialogando con il Partito democratico da molto tempo su Moratti e su D’Amato, anche se le due cose non sono collegate. Se loro non riescono a convergere sulla Moratti amen. Io avevo solo detto che non si poteva fare che da un lato il Pd stava con il Terzo polo e dall’altro con M5s”, assicura Calenda. Ma l’impressione è che i vertici del Nazareno non si fidino: il precedente delle politiche, con la giravolta del capo di Azione a 4 giorni dall’accordo siglato coi dem, è troppo recente. Il pericolo, però, è replicare quanto è stato fatto in estate da Letta: rompere coi 5 stelle e poi farsi scaricare pure da Calenda.

Un partito senza guida – Una situazione pericolosissima, soprattutto in un momento in cui i dem non hanno una guida: Letta è rimasto come segretario traghettatore, ma ha ovviamente un peso limitato dopo la sconfitta del 25 settembre. Ecco perché in questi giorni si stanno mostrando tutti i limiti della scelta compiuta dal partito dopo le politiche, cioè un percorso di ricostruzione che non si concluderà prima di marzo: per allora in Lombardia e Lazio si sarà già votato. Più di qualcuno si sta accorgendo come questa scelta possa rivelarsi letale. “Il nuovo Partito Democratico di cui abbiamo bisogno deve nascere prima possibile. Qualche settimana fa, nella riflessione a caldo dopo il voto, auspicavo un tempo adeguato per fare questa discussione di fondo. Oggi però, alla luce di quello che sta succedendo intorno e dentro al Pd, sento che non possiamo permetterci un percorso troppo lungo”, ha scritto per esempio l’ex viceministra degli Esteri, Marina Sereni, sul suo sito. Il problema, però, non è solo di tempi ma pure di nomi, visto che, come fa notare Gianni Cuperlo, “di Maradona in giro non se ne vedono”. A spiegare quale è il rischio di tutta questa situazione è Dario Nardella: “Diciamo le cose come stanno: inassenza di un sistema di valori condivisi, e di una riflessione vera identità plurale, rischiamo di dividerci due, rischiamo una scissione peraltro alimentata dalle pressioni esterne. Come la questione delle alleanze: non si fa un congresso decidendo con chi ti allei, così consenti agli altri di condizionare le tue scelte”. E in effetti è quello che sta avvenendo: nella politica dei due forni al contrario al Pd rischia di toccare la parte della legna da ardere.

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