Un passo in avanti e molti indietro. La percezione della situazione politica è soprattutto questa per chi vive a Mitrovica, città nel nord del Kosovo, a pochi chilometri dal confine serbo. Il luogo è noto soprattutto perché la comunità albanese e quella serba vivono insieme senza realmente convivere, separate come sono da un ponte che rappresenta una linea divisoria così netta che molti la definiscono a tutti gli effetti un confine. I media negli ultimi mesi sono tornati a raccontare spesso questa area. La ragione ufficiale dell’interesse è legata alle tensioni seguite alla decisione del premier kosovaro Albin Kurti di introdurre diversi regolamenti ispirati al “principio di reciprocità” con la Serbia, tra cui una misura che vieta la circolazione delle auto con targa serba all’interno del Paese. La verità, tuttavia, è che la scelta adottata da Kurti per alzare il livello di tensione con i vicini serbi è solo un tassello all’interno di un contesto molto più ampio, in cui lunghi periodi di tregua si alternano da anni a forti momenti di tensione.
L’ultima svolta risale a domenica, quando migliaia di serbi kosovari sono scesi in strada per opporsi alla legge sulle targhe entrata ufficialmente in vigore e per chiedere nuovamente la creazione di una Comunità delle municipalità serbe in Kosovo. Le immagini immortalano una folla di nazionalisti che, sfilando con striscioni inneggianti al governo di Belgrado, restituiscono la sensazione che a Mitrovica e in tutto il Paese il rischio di una rapida escalation non sia così remoto. In queste ore sono pochi gli attivisti sul posto che hanno voglia di esporsi, preoccupati come sono dal rischio di ritorsioni. “La situazione ci preoccupa e abbiamo un po’ di paura perché tutto sta accadendo vicino a noi” spiega Nerimane Ferizi della ong Community Building Mitrovica, storica realtà locale che dal 2001 si occupa di restaurare il dialogo tra serbi e albanesi. Nata nel 1988 da una famiglia albanese, nello stesso lasso di tempo in cui Nerimane cresceva e scopriva la realtà che la circondava l’allora presidente serbo Slobodan Milosevic avrebbe mandato quella stessa realtà in frantumi, attraverso una campagna guerrafondaia che coinvolse gran parte del territorio dell’ex Jugoslavia. Dal 1991 al 1995 toccò a Croazia e Bosnia-Erzegovina. Nel 1998, invece, i carri armati dell’esercito jugoslavo ormai ‘serbizzato’ invasero il Kosovo, per ritirarsi soltanto sotto al fuoco dei bombardamenti della Nato su Belgrado. La firma sui trattati fu apposta nel 1999 ma, come vale per gran parte delle aree devastate dalla guerra, l’accordo raggiunto portò a una deposizione delle armi e non a una pace vera e propria. “Ogni volta che viviamo questi momenti le amicizie tra serbi e albanesi che si creano grazie agli sforzi che facciamo rischiano di deteriorarsi – aggiunge Nerimane – Sul ponte che collega le due parti di città i controlli della polizia si intensificano. Così ai giovani albanesi passa la voglia di far visita agli amici che si trovano nell’area serba e viceversa. È come se questi periodi di tensione ci riportassero al punto di partenza e dovessimo ricominciare da capo, di nuovo, per costruire fiducia reciproca”.
Le tensioni si erano riaccese già la scorsa estate, ma Bruxelles aveva spinto il premier kosovaro Albin Kurti e il presidente serbo Aleksander Vucic a intraprendere la strada del dialogo per una normalizzazione dei rapporti. Qualche risultato era stato raggiunto, tra cui la scelta di rendere possibile l’attraversamento delle frontiere reciproche senza ulteriori documenti, necessari fino a poche settimane fa. Il lavoro di mediazione è stato tuttavia vanificato dagli eventi degli ultimi giorni, tra cui la sospensione da parte di Pristina del serbo Nenad Đurić, l’uomo a capo della polizia regionale del Kosovo del Nord che si è opposto alla misura della re-immatricolazione delle targhe serbe. Dopo la sua destituzione, centinaia di serbi impiegati nella stessa area del Paese si sono licenziati.
“La protesta è stata calma, per certi aspetti contraddittoria. Da una parte, infatti, si cantavano canzoni ispirate a quel nazionalismo serbo che ha fatto migliaia di vittime. Mentre dall’altra Goran Rakić, leader della Lista Serba che ha organizzato la protesta, nel suo discorso sottolineava la necessità di perseguire ‘Pace, pace e solo pace’”, ha detto il giornalista e attivista per i diritti umani Valon Arifi, appartenente alla comunità albanese in Serbia. “Le politiche che vengono portate avanti sono populiste e nazionaliste, ma vale per entrambe le parti. Ora c’è il rischio che Belgrado riporti la situazione al punto zero per far cadere tutti gli accordi firmati per anni a Bruxelles. La gente qui si aspettava le proteste delle ultime ore, ma le dimissioni dei serbi dalle istituzioni kosovare potrebbe essere solo la fase iniziale”. Per chi vive nella regione, quanto sta accadendo non rappresenta nulla di nuovo. Arifi, tuttavia, sostiene che oggi sia il contesto internazionale a fare la differenza. “L’invasione russa in Ucraina e l’influenza che Mosca ha sulla Serbia contribuiscono ad accentuare le nostre preoccupazioni. Ma il lavoro di noi attivisti non si ferma, anzi. Gli ostacoli che incontriamo ci convincono una volta di più che il nostro impegno è necessario, ci motivano a continuare”.