Si parla di grandi riforme, ma i negoziati procedono lentamente, mettendo a rischio il mantenimento degli obiettivi sui finanziamenti per il clima. Su cui, però, ci sono nuovi impegni. Ma serve di più: una riforma radicale, appunto, dell’intero sistema finanziario per aiutare il Sud del mondo a “ridurre le emissioni, costruire resilienza, affrontare le perdite e i danni e ripristinare” lo stato naturale dell’ambiente. E arrivare a circa 2.400 miliardi di dollari entro il 2030, di cui mille da Paesi ricchi e istituzioni multilaterali. Questo il tema cruciale della giornata che la Cop 27 di Sharm el-Sheikh ha dedicato alla finanza climatica. Una questione legata a quella del greenwashing e all’elefante nella stanza della Cop27: i combustibili fossili, in modo particolare il gas. Ed è per questo che molti osservatori hanno criticato il piano di compensazione del carbonio presentato dall’inviato speciale degli Stati Uniti per il clima John Kerry. L’Energy Transition Accelerator, che vedrebbe la collaborazione della Rockefeller Foundation e del Bezos Earth Fund, dovrebbe espandere la vendita di crediti di carbonio (che le aziende potrebbero acquistare) per promuovere progetti rinnovabili nei paesi in via di sviluppo. Nel frattempo si tirano le somme sui finanziamenti. Anche se manca poco ai Paesi ricchi per raggiungere in ritardo quei 100 miliardi di dollari che avrebbero dovuto mobilitare ogni anno, entro il 2020 e fino al 2025, sia da fonti pubbliche che private, per aiutare i Paesi in via di sviluppo e più vulnerabili, “è ormai chiaro che si tratta comunque di una goccia nel mare” spiega a ilfattoquotidiano.it Luca Bergamaschi, co-fondatore e direttore esecutivo di Ecco, think tank italiano sul clima.
I 100 miliardi promessi all’anno – I 100 miliardi promessi alla Cop 15 di Copenhagen, nel 2009, non sono stati raggiunti. Secondo i dati Ocse nel 2020 si è arrivati a 83,3 miliardi (appena 3 dagli Usa). Le risorse sono state utilizzate solo per un quinto per interventi di adattamento. La maggior parte viene impiegata per aiutare i paesi a reddito medio in progetti di riduzione delle emissioni e per far fronte a perdite e danni. Alla Cop 26 i paesi sviluppati sono stati chiamati a raddoppiare il proprio sostegno all’adattamento (da 20 miliardi all’anno ad almeno 40). L’Italia, che finora ha sborsato 460 milioni di euro all’anno, ha triplicato la propria finanza: con il Fondo Italiano per il clima da 840 milioni di euro (per i prossimi 5 anni) si arriva agli 1,4 miliardi di dollari all’anno promessi da Draghi. Anche se, proprio Ecco, ha calcolato lo scorso anno che l’Italia potesse raggiungere una ‘quota equa’ stimata in 4 miliardi di dollari (3,4 miliardi di euro) all’anno. In generale, comunque, si stima che i 100 miliardi promessi possano essere raggiunti dal 2023 e fino al 2025, magari riuscendo ad andare oltre per compensare le risorse insufficienti degli ultimi anni. “È in corso la discussione su cosa succederà dopo il 2025 – spiega Bergamaschi – ossia il cosiddetto obiettivo di lungo periodo della finanza al centro di un dialogo ministeriale di alto livello, presieduto da Italia e Trinidad Tobago. A Glasgow si è stabilito di arrivare a una decisione entro fine 2024”.
Il meccanismo per ‘loss & demage’ – “È molto importante, proprio perché quei 100 miliardi non sono sufficienti. Sono una promessa non mantenuta che lede la fiducia dei Paesi del Sud del mondo, ma di fatto sono stati superati dalle esigenze reali” aggiunge. Si stima che il fabbisogno annuale di adattamento raggiunga i 160-340 miliardi di dollari entro il 2030 e i 315-565 miliardi di dollari entro il 2050, mentre i costi per affrontare le perdite e i danni ammontano a un trilione di dollari entro il 2050. Da qui la necessità di un meccanismo per ‘loss & demage’ chiesto dal Gruppo dei 77 (130 nazioni) più la Cina. Per la prima volta la questione è entrata in agenda “ed è un punto su cui i Paesi devono raggiungere un risultato entro il 2024” ricorda Bergamaschi, spiegando che “la discussione ruota intorno a una definizione di ‘loss&demage’ che possa circoscrivere il tipo di eventi e di danni da risarcire e i relativi progetti da finanziare, ma anche attorno a quale o quali meccanismi adottare. Non sappiamo se una decisione verrà già presa alla Cop 26 o ci sarà bisogno di più tempo, ma in questi giorni ci sono diversi segnali”. Alla Cop 27 anche la presidente della Commissione Ue ha mostrato per la prima volta sostegno all’idea di creare un meccanismo di finanziamento per le perdite e i danni. “E la Cina ne ha riconosciuto l’importanza, mostrando una prudente apertura – spiega Bergamaschi – anche perché Pechino sa bene che, in futuro, diventerà un Paese donatore”. Più controversa la posizione degli Usa e dell’amministrazione Biden. “Perché gli Stati Uniti non vogliono aprire il contenzioso sulla compensazione rispetto alla responsabilità storica delle emissioni – replica – e perché c’è bisogno dell’appoggio del Congresso, ma se Unione europea, Cina ed altre potenze iniziano a dialogare su questo tema, gli Usa rischiano di rimanere isolati”.
Gli impegni delle nazioni – Alcuni Stati si sono già mossi: la Scozia ha portato il suo impegno totale a 7,7 milioni di dollari, 5 in tre anni per perdite e danni, la Danimarca verserà oltre 13 milioni di dollari, il Belgio 2,5 milioni, dalla Germania ne arriveranno 170, l’Austria verserà 50 milioni di dollari, 20 per perdite e danni. E ancora l’Irlanda (10 milioni di euro), la Nuova Zelanda (20 milioni di dollari per perdite e danni), il Regno Unito (13 milioni di sterline per adattamento e perdite e i danni) e la Svizzera (144 milioni di dollari per l’adattamento). Dal Canada arriveranno 24 milioni di dollari (compresi finanziamenti per perdite e danni pari a 7 milioni di dollari per lo Scudo globale). “Se tutti gli altri Paesi volessero, infatti – sottolinea Bergamaschi – ci sono già diversi strumenti che si potrebbero utilizzare per la ricostruzione dopo i disastri, anche fuori dal negoziato, più complesso perché 193 Paesi devono mettersi d’accordo sul tipo di meccanismo da adottare”. Uno di questi strumenti è il programma Global Shield nato quest’anno sotto presidenza tedesca del G7 (e per il quale il cancelliere Olaf Scholz ha promesso i 170 milioni di dollari e l’Irlanda altri 10 ndr) “anche se è un po’ sbilanciato sul tema delle assicurazioni – aggiunge il direttore esecutivo del think tank Ecco – che è un elemento importante, ma non è la soluzione di tutto, anche perché la maggior parte dei danni non è assicurabile. Chi potrebbe assicurare una catastrofe come quella avvenuta quest’anno in Pakistan? Resta, comunque, uno strumento importante”.
Una riforma del sistema finanziario – Per dare un aiuto ai Paesi del Sud del mondo, però, serve una presa d’atto di ciò che finora non ha funzionato del sistema della finanza climatica. “L’iniziativa più importante in questa direzione – aggiunge Bergamaschi – è Bridgetown initiative” con cui il governo delle Barbados propone riforme radicali alla Banca mondiale, al Fondo monetario internazionale (FMI) e ad altre banche multilaterali di sviluppo (MDB) e che “per la prima volta ha ricevuto il sostegno di un Paese del G7, la Francia”. Per Macron, una finanza climatica innovativa “servirebbe a mobilitare finanziamenti pubblici e privati eccezionali e a cambiare le regole delle principali istituzioni finanziarie”. Il presidente francese ha incaricato un gruppo di esperti che, entro primavera, dovrà capire come sviluppare la Bridgetown che, tra le altre cose, potrebbe fornire un contributo rispetto al problema del debito dei Paesi poveri “perché si tratta di riformare anche le regole del debito che bloccano l’accesso al capitale, liberando delle risorse”.
Greenwashing e combustibili fossili – In parallelo c’è il discorso della finanza privata. Ma bisogna muoversi anche contro il greenwashing aziendale. Un tema legato a doppio filo a quello dei combustibili fossili. Le linee guida pubblicate dal team incaricato dal segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, hanno concluso che alleanze come la Glasgow Financial Alliance for Net Zero (Gfanz), lanciata dall’ex governatore della Banca centrale inglese Mark Carney con un impegno di 130 trilioni di dollari di capitali privati per raggiungere gli obiettivi di emissioni nette zero entro il 2050, devono rafforzare i propri standard e rimuovere i membri che ottengono scarsi risultati. Il tema si era già posto alla Cop 26. “Il problema è che meno del 20% di questi capitali disponibili – spiega Bergamaschi – sono allineati con obiettivi Net Zero. Per questo sono importanti le linee guida pubblicate dall’Onu contro il greenwashing”. Il prossimo passo è l’istituzione di una task force “che implementi quelle indicazioni e apra un dialogo con le agenzie regolatrici per stabilire uno standard internazionale che sia davvero Net Zero”. A maggior ragione in questo momento storico, in cui fioccano accordi sul gas, anche con i Paesi africani. Lo stesso presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha detto che “i Paesi in via di sviluppo hanno bisogno di gas per lo sviluppo e la transizione”. “Lo ha fatto – conclude Bergamaschi – senza spiegarne le ragioni e specificare chi è che beneficia di questi progetti”. Il rischio è che ne traggano vantaggio compagnie dell’oil&gas e non quei Paesi che, come dimostra la storia, “dallo sfruttamento di combustibili fossili non hanno tratto i benefici promessi in termini di diminuzione della povertà e di accesso all’energia”.