Ci sono notizie che non dovrebbero essere tali. In questi giorni ha fatto parlare quella del liceo Morgagni di Roma, dove da sette anni è partita una sperimentazione (oggi allargata a un’intera sezione): gli studenti vengono interrogati e fanno prove di verifica, ma non vengono valutati con un numero. I professori spiegano loro che cosa c’è da fare per migliorarsi e su quali aspetti sarebbe bene lavorare di più. Ci sono già due classi di diplomati col sistema super sperimentale.
Se in questo Paese, ci fossero insegnanti, dirigenti scolastici che oltre a leggere (sempre che l’abbiano fatto) Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani e Il Paese sbagliato di Mario Lodi, l’avessero anche fatte diventare “vita” concreta, non ci stupiremmo di quanto accade al liceo romano. Lo stupore di tutti dovrebbe essere che l’esperienza del “Morgagni” resta un’eccezione.
A spiegare a tutti la validità di quanto viene fatto in questa sezione è stato il priore di Barbiana che scriveva con i suoi ragazzi: “Giorno per giorno studiano per il registro, per la pagella, per il diploma. E intanto si distraggono dalle cose belle che studiano. Lingue, storia, scienze, tutto diventa voto e null’altro. Dietro ai quei fogli di carta c’è solo l’interesse individuale. Il diploma è quattrini. Nessuno lo dice. Ma stringi stringi il succo è quello”.
Così la pensava anche il maestro di Piadena, Mario Lodi. Così faccio io da ben più di sette anni. La mia non è una sperimentazione. Non voglio che lo sia. Non voglio imprimatur da nessuno. È la vita di tutti i giorni da quando sono entrato per la prima volta in aula. Qualche settimana fa ho avuto la soddisfazione di avere l’approvazione dei miei datori di lavoro: i bambini. Intervistati dal collega giornalista Alessandro Banfi per la realizzazione del podcast Maestre e maestri d’Italia hanno spiegato così la mia scelta. Giulia, dieci anni, ha detto: “Il nostro maestro non ci dice i voti. A noi non piace molto, ma ci ha spiegato il perché. Non vuole darceli perché ci ha detto che sono un’etichetta. Io stessa ho preso un sei e mi son messa a piangere. Ora ho capito che devo studiare per imparare non per il voto che non serve a nulla”.
Credo che non servano osservazioni di psicologi o di chissà quale esperto per capire che il voto è un retaggio culturale e didattico dell’Ottocento, di una scuola dei bisnonni che serve solo all’insegnante per “esercitare” il suo “potere”. Anni fa in una scuola dove ho lavorato, Trescore Cremasco, ho incontrato una realtà dove tutte le classi dovevano fare le stesse verifiche ideate da solerti docenti che analizzavano i risultati calcolando persino le percentuali: una perfetta industria del voto. Dissi alla bidella di buttare quelle verifiche. Non ne ho mai fatta una e quando le colleghe mi chiedevano la percentuale raggiunta dalla mia classe rispondevo. “Cento. Maestro bravo, alunni bravi”.
Ma è lì che ho incontrato Marco che per anni non ha studiato perché il risultato delle verifiche era sempre più basso degli altri. Con Marco ho fatto la cosa più scontata di questo mondo: gli ho dato fiducia. Son partito dal fatto che meritava la mia fiducia di là del merito di aver studiato o meno, bene o male, i Romani. È bastato questo semplice gesto per scatenare in Marco la voglia di studiare, di aprire il libro, di mostrarmi che sapeva, che si meritava la mia attenzione, il mio ascolto.
È andata così: pian piano Marco ha iniziato ad acquisire fiducia, a sentire che ai miei occhi era meritevole. Non serviva un metro per misurare; nemmeno le percentuali. Bastava guardarsi negli occhi. Marco ha iniziato a studiare e la mamma mi ha detto che si alzava la mattina presto per arrivare a scuola preparato. Oggi purtroppo la maggior parte degli insegnanti perdono il loro tempo a dare voti. Amano il voto e continuano a tramandare ai genitori la necessità del voto. Persino le “nuovi” valutazioni alla scuola primaria, frutto di un lungo lavoro di una commissione ministeriale, hanno prodotto di nuovo una copia del vecchio modello: anziché dare otto, sette, oggi gli insegnanti scrivo “pienamente raggiunto”; “parzialmente raggiunto”.
E a chi mi dice: “Il voto serve per vedere se hanno capito” rispondo: “Cambia mestiere. Perché se a un docente serve il voto per capire se la lezione è stata compresa è meglio che faccia altro”. E a chi mi dice che: “Il voto serve perché nella vita dovranno misurarsi con le prove” rispondo che a scuola si va per imparare a sbagliare, a perdere, ad avere fiducia, senza necessità di quiz o temi che imprigionano il pensiero di un bambino. La vera rivoluzione pedagogica in questo Paese sarebbe far in modo che quanto accade al “Morgagni” non sia più una sperimentazione.