In attesa che il Parlamento scelga i membri laici, il futuro Consiglio superiore della magistratura parte già azzoppato da un nuovo scandalo giudiziario. Che ancora una volta, come nel caso Palamara, riguarda un consigliere togato: Dario Scaletta, pm a Palermo ed eletto a suon di voti a palazzo dei Marescialli lo scorso settembre con i conservatori di Magistratura indipendente. La Procura di Caltanissetta lo indaga per abuso d’ufficio con l’accusa di aver “raccomandato” la nomina del cognato Alessio Melis a coadiutore dell’amministrazione giudiziaria di alcuni beni confiscati, nell’ambito di un procedimento affidato alla giudice Silvana Saguto, poi condannata per corruzione e radiata dalla magistratura. Scaletta si dichiara “sereno e a disposizione dell’autorità giudiziaria”, ma la vicenda potrebbe mettere seriamente a rischio il suo mandato. La legge che disciplina il funzionamento del Csm, infatti, prevede che i componenti “possono essere sospesi dalla carica se sottoposti a procedimento penale per delitto non colposo“, come nel suo caso. Per deliberare la sospensione però serve la maggioranza dei due terzi dei componenti a scrutinio segreto: molto difficile da raggiungere nel prossimo plenum, in cui almeno sette membri laici su dieci saranno espressione del centrodestra e sette togati su 20 appartengono alla corrente di Scaletta.
Ma c’è un caso del recente passato che potrebbe tornare a galla e mettere in difficoltà il pm palermitano, convincendolo – ancor prima dell’insediamento – a fare un passo indietro più o meno spontaneo. È quello di Bruno Giangiacomo, presidente del tribunale di Vasto ed esponente dei progressisti di Area: nel 2019, da primo dei non eletti, rinunciò a subentrare a Paolo Criscuoli, uno dei consiglieri dimessisi in seguito allo scandalo Palamara. Il motivo? Era sottoposto a un procedimento disciplinare per non essersi astenuto, alcuni anni prima, da processi in cui la sua presunta amante era avvocato difensore. Giangiacomo si fece da parte nonostante contro di lui non ci fosse alcuna accusa penale, dichiarando di aver preso la decisione “per esclusivo senso di responsabilità istituzionale e rispetto nei confronti del presidente della Repubblica in considerazione della situazione di particolare eccezionalità venutasi a creare all’interno del Csm”, funestato dalle dimissioni di massa dei consiglieri coinvolti nei fatti dell’hotel Champagne. Una scelta in cui probabilmente ebbe un peso anche il pressing discreto del Quirinale. Per questo, anche se il quadro non è più quello “eccezionale” di tre anni fa, sarebbe molto strano che nessuno storcesse il naso di fronte a un consigliere sottoposto addirittura a un procedimento penale.
E non è tutto, perché da un’indagine a carico di un magistrato nasce quasi sempre anche un giudizio disciplinare (che però rimane sospeso in attesa dell’esito di quello penale). In questo caso, gli atti di Caltanissetta sono già a disposizione del procuratore generale della Cassazione, titolare dell’azione disciplinare, che dovrà decidere se portare il caso di fronte all’apposita sezione del Csm. Creando un cortocircuito clamoroso: a quel punto, infatti, la rilevanza dei comportamenti di Scaletta verrebbe giudicata dai suoi colleghi in Consiglio, che dovrebbero decidere anche le eventuali sanzioni. Soprattutto, in caso di condanna, la legge prevede che “i magistrati componenti il Consiglio superiore incorrono di diritto nella decadenza dalla carica se riportano una sanzione disciplinare più grave dell’ammonimento“, cioè la sanzione minima: è ovvio che in quel caso la decisione sul caso sarebbe pesantemente condizionata dalle conseguenze. Senza contare che lo stesso Scaletta, una volta a palazzo dei Marescialli, ha tutto il diritto di chiedere di essere assegnato egli stesso alla sezione disciplinare, occupandosi di casi magari simili al suo. Una gigantesca questione di opportunità che potrebbe scoppiare all’insediamento del nuovo Consiglio. Ilfattoquotidiano.it ha tentato senza successo di contattare il magistrato per raccogliere il suo punto di vista.