“Noi, rappresentanti della nazione, chiediamo a tutte le autorità – compreso il potere giudiziario – di trattare i moharebin (gli autori del reato di moharebeh, ossia guerra contro Dio) che hanno usato le armi come l’Isis per attaccare la vita e i beni delle persone, in un modo tale da servire da lezione, di eseguire il decreto divino contro i moharebin, non importa da quali settori provengano, e di emettere sentenze qisas (retributive, ossia l’omicidio dell’omicida) per mostrare a tutti che le vite, i beni, la sicurezza e l’onore del nostro amato popolo sono una linea rossa non valicabile dal nostro governo e in modo da non essere clementi nei confronti di alcuno”.
Così, il 6 novembre, si sono pronunciati 227 dei 290 deputati dell’assemblea consultiva islamica, il parlamento iraniano. Il capo del potere giudiziario, Gholamhossein Mohseni-Ejei, ha sollecitato i giudici a raccogliere l’appello e a fare presto. Delle migliaia di manifestanti arrestati in queste settimane di proteste, almeno otto sono indagati per reati contro la sicurezza, incluso quello di moharebeh.
Uno di loro è stato già condannato a morte, Mahan Sedarat, processato dalla sezione 26 del tribunale rivoluzionario di Teheran e dichiarato colpevole di “attentato all’ordine sociale” per possesso di un’arma da fuoco e collusione contro la sicurezza nazionale. Il 29 ottobre è arrivata, per il reato di moharebeh, anche la condanna a morte di Saman Yassin, un autore curdo di 27 anni autore di numerosi brani di denuncia cantati anche nelle recenti proteste.
In oltre quattro decenni, la Repubblica islamica iraniana ha fatto un massiccio uso della pena di morte come strumento di repressione politica o per mantenersi aggrappata al potere. Dopo le oltre 250 persone assassinate in strada mentre manifestavano pacificamente, il rischio è che molte altre vengano uccise dal patibolo.