I nodi stanno arrivando al pettine. Il rischio è che lo facciano tutti insieme. Il nuovo governo Meloni ha diversi e spinosi dossier economici da sbrogliare, lasciti del governo Draghi e non solo. Ilva, raffineria Lukoil di Priolo, Tim, Ita Airways ed Mps sono i più caldi e impellenti. Oggi si registrano nuove prese di posizione. La prima è del leader della Lega e ministro dell’Infrastrutture Matteo Salvini che su una privatizzazione entro fine anno ha commentato: “Sarebbe opportuno altrimenti ci saranno altre centinaia di milioni di euro di denaro pubblico da spendere”. In generale lo stato della vicenda della compagnia aerea “chiedetelo al ministro dell’Economia su cui tavolo c’è il dossier. Spero che entro la fine dell’anno ci sia un futuro certo per una compagnia di bandiera importante soprattutto per i lavoratori. Se si sceglierà l’offerta francese o tedesca io non ci metto becco, a me interessa che ci sia un piano industriale e non solo un piano finanziario”. Durante la campagna elettorale Giorgia Meloni aveva frenato sulla vendita, ipotizzando l’ennesimo tentativo di rilancio per mano pubblica. Pochi giorni fa il ministero dell’Economia, titolare del 100% di Ita, ha staccato un assegno da 400 milioni di euro per la compagnia, ultima tranche degli 1,3 miliardi di euro autorizzati da Bruxelles. Mossa che dovrebbe agevolare le trattative per la vendita di una quota di maggioranza visto che questo onere non verrà accollato all’eventuale acquirente come si era ipotizzato ad un certo punto. Il vettore macina perdite, circa 1,5 milioni di euro al giorno. La cordata composta dal fondo statunitense Certares e da Delta (più Air France) ha perso l’esclusiva nella trattativa riportando in partita il duo Lufthansa – Msc.
Su Tim è intervenuto invece Adolfo Urso, ministro delle Imprese e Made in Italy (ex Sviluppo Economico). “Abbiamo bisogno di una rete che sia anche a controllo pubblico“. L’assetto del settore delle Tlc è una “questione strategica del Paese”, ha detto il ministro. Il Governo si propone di mettere in campo, aggiunge “una strategia che punterà a realizzare al più presto la rete, con il controllo pubblico delle reti che punterà sicuramente a realizzare nel nostro paese, quell’economia digitale che” potrà permetterci di recuperare un ruolo da “protagonista con le altre economie europee nel recuperare i ritardi straordinari che l’Europa ha in questo campo”. L’obiettivo di una “autonomia strategica nel settore digitale” a livello europeo, aggiunge, si può raggiungere “attraverso anche investimenti stranieri, che noi gradiamo, ovviamente sottoposti al controllo che la legge ci consente di fare attraverso lo strumento del golden power”.
Per capire di cosa stia parlando Urso bisogna partire dalla composizione dell’azionariato di Tim. Il socio più forte sono i francesi di Vivendi che posseggono il 23,7% della società. Poi c’è Cassa depositi e prestiti (in sostanza il ministero del Tesoro) che ha poco meno del 10%. Tim controlla Fibercop, ossia parte della rete italiana in fibra ottica e la strategica Sparkle che gestisce i collegamenti sottomarini tra Asia, Mediterraneo e America. Cassa depositi e prestiti controlla anche Open Fiber, con il fondo australiano Macquaire socio di maggioranze, a cui fa capo l’altra parte dell’infrastruttura italiana. Fratelli d’Italia ha messo a punto un piano che prevede, in origine, un’offerta di Cdp sull’intera Tim, dopo di che la parte relativa alla telefonia verrebbe rivenduta mentre lo Stato manterrebbe il controllo sull’infrastruttura rete. Ma Vivendi parte da una richiesta di 30 miliardi per la sua partecipazione mentre Cdp è disposta a versare la metà. Ecco quindi che hanno preso forma diverse varianti del progetto originario che coinvolgono anche altri soggetti come il fondo Usa Kkr, nell’ottica di uno spezzatino della società che non lascerebbe nessuno a bocca asciutta. Il governo non sembra peraltro monolitico sull’argomento. “Ci sono tanti ministri coinvolti, dobbiamo discuterne”, ha risposto laconico venerdì scorso il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti.
Mps ha faticosamente portato a termine la sua ricapitalizzazione da 2,5 miliardi di euro che ha azzerato il valore delle azioni già esistenti. 700 milioni sono stati persi nei primi giorni di contrattazione post aumento di capitale e la banche vale oggi in borsa 1,8 miliardi di euro. Dei nuovi fondi la fetta più larga è stata messa dal Tesoro, azionista della banca al 64%, che ha versato 1,6 miliardi di euro. Il Mef è poi riuscito a coinvolgere nell’operazione una lunga lista di fondazioni bancarie ed enti previdenziali. Alle banche che hanno gestito l’aumento, garantendone la riuscita, sono andate commissioni per 125 milioni di euro. Cifra fuori mercato che ha suscitato perplessità nella Commissione Ue. Rimessa in piedi la banca si attende che qualcuno si faccia avanti. La scommessa è su una proposta di acquisizione dopo che nel 2021 era saltata la trattativa con Unicredit che considerava insufficiente l’impegno finanziario del Tesoro. Oggi la società di consulenza Bluebell Partners ha chiesto alla Commissione europea di aprire una procedura di infrazione contro l’Italia per la concessione di aiuti di Stato illegali a Mps nell’ambito dell’aumento di capitale da 2,5 miliardi di euro chiuso all’inizio di novembre, a cui il Tesoro ha partecipato iniettando 1,6 miliardi di euro.
La raffineria di Priolo, in Sicilia, è una bomba ad orologeria. L’impianto produce il 20% di benzina e diesel usati in Italia ed è di proprietà della russa Lukoil. Con le prime sanzioni l’impianto ha perso la capacità di comprare petrolio da altri paesi, tutto il greggio che impiega proviene quindi dalla casa madre, dalla Russia. Il 5 dicembre entra però in vigore l’embargo Ue sul petrolio di Mosca che lascerebbe a secco la raffineria con ricadute su tutto l’indotto e le raffinerie secondarie che si riforniscono da Priolo dopo un primo processo di lavorazione del greggio. Il governo ha affermato che per l’impianto si concorderà una sorta di esenzione dall’embargo. Ma di concreto per ora non c’è nulla. Dulcis in fundo, si fa per dire, l’Ilva. Nel week end è arrivato lo stop agli appalti per 145 aziende dell’indotto, mossa che mette a rischio un migliaio di posti di lavoro. La fabbrica aspetta ancora il miliardo di euro stanziato nel Dl aiuti del governo Draghi.