“No Mary, fammi capire bene: c’è l’ex addetto stampa di Teresa Bellanova che la accusa di averlo fatto lavorare in nero? Cioè: la sottosegretaria al Lavoro, prima firmataria della legge contro le false partite Iva, è coinvolta in una causa di lavoro perché il suo ex portavoce era a tutti gli effetti una falsa partita Iva?”. Quando in redazione arriva una storia del genere la reazione è sempre la stessa: è una notizia, si pubblica. Con l’entusiasmo direttamente proporzionale alla portate della storia in questione. Anche il modus operandi è sempre lo stesso: verificare, sentire le parti in causa. Tutte. Senza sconti per nessuno, men che meno se è coinvolto il potente di turno. Il 4 settembre 2014, poi, nella vicenda raccontata da Mary Tota c’era quell’aspetto kafkiano che fa diventare la notizia una grande notizia: un componente del governo accusato di quella pratica infame che lui stesso ha voluto debellare con una legge sacrosanta.

Neanche per un secondo ho pensato di non pubblicare l’articolo di Mary: perché mi fido di lei, perché queste storie non possono essere taciute. Non è una questione politica o di simpatia partitica: è il giornalismo fatto bene, bellezza. Poi però è diventata anche una questione di principio: perché quando Mary Tota ha chiesto una replica a Teresa Bellanova, la risposta della sottosegretaria è stata una diffida a pubblicare la notizia.

È un comportamento inqualificabile: io sono io e voi non siete un beep, non potete disturbare la mia carriera con questa faccenda, l’articolo non deve uscire. Teresa Bellanova, però, non sa che quando il protagonista di una vicenda cerca di impedire a un giornalista di pubblicare la notizia che lo riguarda ottiene la reazione diametralmente opposta.

Otto anni fa andò esattamente così: pubblicai, avevamo già perso troppo tempo. Con un’accortezza speciale: Teresa Bellanova non vuole raccontare la sua versione dei fatti? Bene, visto che abbiamo le carte della causa di lavoro, inseriamo ciò che lei ha dichiarato davanti al giudice. Lo ammetto: è stato un trattamento di favore, non si fa mai, un eccesso di zelo, uno stratagemma per garantire al politico nazionale di avere comunque una voce all’interno del pezzo. Per farla breve: la coscienza era completamente pulita. Avevamo fatto il nostro lavoro in maniera perfetta: c’è una notizia, la verifichiamo, sentiamo tutti, pubblichiamo. Da manuale.

Ciò che è successo dopo ha dell’incredibile. La nostra Mary Tota, Danilo Lupo de La7 e Francesca Pizzolante de Il Tempo (le altre testate che avevano pubblicato la vicenda) vengono denunciati da Teresa Bellanova per concorso in estorsione. Sì, concorso in estorsione: avete letto bene. E la cosa più meschina non è l’accusa in sé, ma il modo: non viene denunciata la testata, il direttore e l’autore dell’articolo (come avviene di solito), ma solo quest’ultimo, con l’obiettivo neanche troppo nascosto di privare il giornalista della copertura legale fornita dall’azienda. Diamo il nome alle cose: è un colpo bassissimo, una cattiveria. Tra l’altro firmata da chi ha fatto della tutela dei lavoratori la cifra della sua scintillante carriera prima sindacale e poi politica. Teresa Bellanova, insomma, ha tradito tutto ciò per cui è famosa, asfaltando la narrazione e la fama che la precedono.

Ma pazienza, non sarà né la prima né l’ultima personalità politica che usa la protervia del potere una volta passata dall’altra parte della barricata. Questa volta le è andata male: i colleghi denunciati vengono difesi da un avvocato di grido fornito dall’ordine, la sua accusa di concorso in estorsione viene derubricata in diffamazione aggravata, tutta la storia cambia forma e diventa una sorta di battaglia civile a favore della libertà di stampa attaccata dagli interessi del potente di turno. Anche per questo motivo quando Mary ha chiesto a me e al direttore Peter Gomez di testimoniare in suo favore abbiamo accettato immediatamente: lo dovevamo a lei, lo dobbiamo a questo bistrattato mestiere.

Non solo. Uno dei pochi risvolti positivi della lentezza della giustizia italiana, poi, è che nel frattempo succedono cose. Accade, ad esempio, che Teresa Bellanova viene condannata in Appello a pagare quanto richiesto dal suo ex portavoce. Aveva ragione lui: era stato sfruttato da chi ha fatto carriera difendendo gli sfruttati. E poi c’è la Consulta, secondo cui è incostituzionale richiedere una pena detentiva per i giornalisti accusati di diffamazione. Una sentenza che evidentemente non avrà letto il pm onorario che ha chiesto sei mesi di carcere per tutti i colleghi denunciati dalla ex ministra. Sei mesi di carcere per aver fatto il proprio lavoro, bene oltretutto.

Con una richiesta del genere la sovraesposizione mediatica deflagra. E non è un bene per la ex parlamentare (alle ultime elezioni la renziana Teresa Bellanova non è stata rieletta). Ieri l’assoluzione con formula piena per tutti i giornalisti, perché “il fatto non sussiste“. E se il fatto non sussiste, allora quella denuncia cos’era? Era una pressione politica, una minaccia serissima alla libertà di stampa, tra l’altro avvalorata da quanto dichiarato da Teresa Bellanova nel 2019, quando in primo grado il tribunale del Lavoro le aveva dato ragione nella causa intentata dal suo ex portavoce: “Sarebbe forse opportuno che chi ha partecipato a forme di linciaggio mediatico e sono tanti, testate e giornalisti, chiedesse scusa. Ma forse è chiedere troppo”. Ecco: chi è che dovrebbe chiedere scusa, ex sottosegretaria Bellanova?

Ancora una cosa: non era linciaggio mediatico quello, era giornalismo fatto bene. E non merita questo trattamento, lo dice la Costituzione, su cui lei ha giurato da ministro. Ma visto che le scuse non arriveranno (e ci interessa il giusto, sinceramente), la speranza di chi scrive è che la storia della protervia di Teresa Bellanova, della sua denuncia temeraria e della sua sconfitta su tutta la linea convinca il Parlamento a smetterla di perdere tempo e di far finta di nulla quando si tratta di approvare la proposta di legge di contrasto alle querele bavaglio. Anche perché i fatti, lo dice questa storia, non si possono imbavagliare.

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