Dopo il fermo di 145 imprese che lavorano negli impianti gestiti da Acciaierie d'Italia il ministro Urso se la prende con il management, che in parte è pubblico: "Mi aspetto a ore un segnale costruttivo. Riportare nei giusti binari il confronto tra azienda, azionista pubblico e governo". Giovedì il faccia a faccia a Roma con i sindacati
La crisi di liquidità che ha portato l’ex Ilva a sospendere attività e ordini di 145 imprese dell’indotto mette il governo contro Acciaierie d’Italia, che è partecipata dallo Stato attraverso Invitalia. Un cortocircuito, perché l’ingresso della società controllata dal ministero dell’Economia nel capitale sociale di Adi accanto ad ArcelorMittal sarebbe dovuta servire proprio per rilanciare il siderurgico di Taranto. E invece le mosse dei manager, in particolare la decisione di fermare fino ad almeno il 16 gennaio 2023 le ditte esterne che lavorano negli impianti senza svolgere attività fondamentali per la produzione, hanno innescato la reazione dura dell’esecutivo.
“Il governo non può essere sotto scacco, non siamo ricattabili da parte di alcuno. Questo vale per chiunque si confronti con l’Italia”, ha detto Adolfo Urso, ministro delle Imprese del Made in Italy. “Mi aspetto a ore che l’azienda ci dia un segnale costruttivo rispetto a quello che ha fatto, senza nessun preavviso, nei confronti delle aziende dell’indotto e dei loro lavoratori”, ha aggiunto il ministro – che ha convocato i sindacati a Roma per giovedì – sottolineando la necessità di “riportare nei giusti binari il confronto tra azienda, azionista pubblico e governo”. Urso ha definito “sorprendente” la decisione di Acciaierie d’Italia spiegando poi, a conferma di un retroscena de ilfattoquotidiano.it dello scorso 12 novembre, di aver avuto “un confronto personale nei giorni precedenti con l’azienda, il presidente, l’amministratrice delegata e con il socio pubblico, ma nessuno mi aveva detto che c’era una decisione di questo tipo”.
La decisione assunta dai vertici di Acciaierie d’Italia, con l’ad Lucia Morselli in testa, va ricondotta infatti a diversi fattori. In primis una sorta di segnale – “estorsione”, l’ha definita il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci – al governo che, attraverso il dl Aiuti, ha stanziato un miliardo di euro per sostenere le attività del siderurgico ma i soldi non sono ancora arrivati a destinazione. Ma c’è da considerare anche che da tempo si rincorrono voci di un rapporto tutt’altro che idilliaco tra i commissari di Ilva in amministrazione straordinaria, ancora proprietaria degli impianti, e i manager di Acciaierie d’Italia, al momento solo affittuaria. E la tensione su questo fronte sarebbe salita dopo dopo la decisione del Tribunale di Milano che a settembre ha inviato le carte alla Corte di giustizia europea affinché si pronunci su una class action di cittadini sul differimento dei tempi dell’Autorizzazione integrata ambientale, prorogata al 2023 in attesa dell’adeguamento delle attività industriali.
Dopo la decisione dei giudici, il governo ha deciso di vederci chiaro e ha avuto un’interlocuzione con i commissari. Alla quale è poi seguito un incontro con i vertici di Acciaierie d’Italia, come ora conferma il ministro Urso. A quanto risulta a ilfattoquotidiano.it proprio nel corso di questi vertici sarebbe emerso un rimpallo di responsabilità sullo stato di avanzamento del piano ambientale e sulla ripresa industriale, aspetto strettamente collegato ai lavori per efficientare l’impianto di Taranto, poiché il ritmo produttivo potrà superare le 6 milioni di tonnellate annue di acciaio solo quando termineranno tutti i lavori che l’ex Ilva è stata obbligata a portare a termine per inquinare di meno e adeguare l’acciaieria alle migliori tecnologie possibili. E che l’attuale dirigenza di Acciaierie d’Italia abbia qualcosa da ridire sull’operato dei commissari, del resto, era già emerso lo scorso 5 ottobre per bocca del presidente Bernabè. Parlando dello “sforzo importante” fatto per mantenere in piedi l’azienda, il manager di nomina pubblica aveva ricordato che l’ex Ilva era stata “abbandonata per 7 anni” sottolineando che era stata “gestita da due commercialisti e un avvocato”. Ovvero i commissari. Di nomina pubblica anche loro, proprio come Bernabè.