Cinema

La nostalgia in tv: trionfa la ‘retromania’ perché non ci sono più utopie da sognare

La nostalgia è un tema tornato centrale nell’immaginario contemporaneo. Pensiamo solo a tre delle serie più importanti degli ultimi anni: in primo luogo, il trionfo mainstream di Stranger Things, serie ammiraglia dell’affermazione di Netflix, con il suo recupero idealizzante degli anni ‘80: ricordiamo una delle scene più famose scene di quel meraviglioso affresco degli anni ‘60 che Madmen (“la nostalgia è un sentimento delicato ma potente”); in maniera definitiva e geniale, il capolavoro Twin PeaksThe Return di David Lynch, che sembra rispondere con un urlo enigmatico alla grande mole di remake, reboot, rifacimenti che domina il mercato cinematografico mondiale.

Sintetizzando brutalmente, come filosofi quali Mark Fisher hanno analizzato, il fenomeno della “retromania” (definizione di Simon Reynolds) è l’espressione della fase definitiva del capitalismo: siamo nostalgici del passato perché non c’è più nessun immaginario alternativo, non c’è più una utopia da sognare.

In questa confusa temperie culturale, un autore dalla profonda sensibilità sociale come Mario Martone dedica il suo nuovo film al tema: Nostalgia, tratto dall’omonimo romanzo di Ermanno Rea, con protagonista Pierfrancesco Favino, accanto a Francesco Di Leva e Tommaso Ragno. Il film, presentato a Cannes e pluripremiato ai Nastri D’Argento, è in lizza per la candidatura agli Oscar del 2023. In occasione della presentazione a New York, durante Italy On Screen Today New York. Film&Tv Series Fest, festival ideato e diretto da Loredana Commonara per l’associazione Artistic Soul, ho avuto occasione di porre alcune domande al regista.

Martone spiega così la genesi del film: “Per la prima volta un romanzo propostomi dai produttori mi ha fatto subito ‘vedere’ il film. In un certo senso, mi ha consentito di fare un viaggio dentro la mia città che non avevo mai fatto. Sembra strano, Napoli l’ho esplorata in lungo e largo, ma il rione Sanità lo conoscevo poco. Soprattutto, mi affascinava la scoperta interiore del personaggio. Ho potuto scoprire qualcosa sia di Napoli che di me stesso che ancora non conoscevo, e ho potuto invitare gli spettatori a fare lo stesso”. Martone ha raccontato, nella sua carriera, più volte la città partenopea: “Ho fatto diversi film a Napoli, ma ognuno è diverso. Questo ha un film fratello, che è L’amore molesto, tratto dal primo romanzo di Elena Ferrante: entrambi iniziano nella strada, Via Forìa, in entrambi i casi ci sono i due protagonisti che camminano. Da quella strada, si inizia a seguire il cammino di quelle due persone, a seguire i loro ricordi, il loro passato”.

Un rione, quello della Sanità, immortalato da Eduardo, ma che risulta essere tuttora uno dei più difficili della città: “Nella sua povertà, nella sua fragilità sociale, è un quartiere in cui si trovano a vivere persone che vengono da diverse parti del mondo, più o meno obbligate a farlo, e riescono a farlo. Dunque, è un quartiere rivolto al futuro, rispetto ad altre zone della città, chiuse nella loro condizione sociale. La Sanità è un quartiere in movimento, che vive un combattimento costante, quello che è stato portato avanti nella realtà da Padre Loffredo, il cui riflesso è portato sullo schermo dal personaggio interpretato da Francesco Di Leva. Mi interessava la coesistenza di queste due spinte: lo sguardo verso il passato e quello verso il futuro”.

Il racconto sembra quasi evocare, in una chiave introspettiva e popolare, una parabola simile a quella de Il Grande Gatsby, non nel fasto esteriore, ma nell’impossibilità di cambiare il passato: “Il passato è il labirinto che c’è alle spalle di ognuno di noi, l’intreccio delle strade che abbiamo attraversato e di quelle che non abbiamo attraversato”. La particolare vicenda del film, che non rivelo, mi ha fatto pensare a precedenti come Just Kids di Takeshi Kitano e Carlito’s Way di Brian De Palma, ma non mi è sfuggito un omaggio al colonnello Kurtz intrerpretato da Marlon Brando in Apocalypse Now: “Non abbiamo non potuto non pensarci, perché l’evocazione del personaggio nel romanzo era simile: il film è un labirinto. Si svolge in un solo quartiere: un dedalo di strade, di vicoli, di slarghi, un vero e proprio labirinto da cui non si può uscire. E in quel labirinto c’è un Minotauro. In questo, chiaramente, c’è un elemento ancestrale: un viaggio, un incontro, una sfida”.

Un film introspettivo, amaro, tragico, eppure traboccante di quella che un intellettuale, incompreso e deformato più che mai nell’anno del suo centenario, definiva “disperata vitalità”.