Quindici giorni di agonia, senza speranza e senza un nome. Poi un giornale, non potendo restituirgli la vita, si incarica di dargli almeno un nome. Lui era Saleh Mohamed Ahmed Abdelaziz, 32 anni, egiziano e questa è la nostra Italia. Un paese così non da quando la destra è al governo, lo era anche prima: chissà perché faceva meno effetto. La trasformazione era in corso, però sembrava un fastidioso, ma poco rilevante, effetto collaterale del trionfo dell’individualismo e della grettezza egoistica di un popolo arrabbiato e senza prospettive.
Persone costrette a comprare identità fittizie per poter vivere, schiave del traffico ancora prima di cominciare a lavorare, private del loro nome e costrette a comprarsene uno per esistere nell’Italia di oggi. Che prima o poi ci saremmo arrivati al commercio delle identità stava già scritto nella legge Bossi-Fini, quella che regola da vent’anni la materia dell’immigrazione nel nostro paese e che nessun parlamento e nessun governo finora ha avuto il coraggio e la determinazione di cambiare. Generando, fra l’altro, un sotto-mercato del lavoro fatto di clandestini che aspettano il decreto flussi che ogni anno il governo emana per provare ad emergere, a diventare cittadini residenti regolari perché dotati di passaporto e contratto di lavoro.
Prima non esistono: sono intorno a noi, li incontriamo per la strada, a scuola, al supermercato, ma non esistono. Per la sicurezza di una comunità non sarebbe meglio che ciascuno avesse una identità certa, così da identificarsi e essere identificato in modo univoco? Ovvero, se il vostro vicino di casa non fosse chi dice di essere, vivreste più tranquilli o con qualche inquietudine in più?
Chi volesse capire meglio le difficoltà insormontabili e la disperazione che generano le istituzioni pubbliche nel negare i diritti degli stranieri, non ha che da affiancare uno dei tanti volontari che si occupano della resistenza, sovente con l’angoscia nel cuore e la consapevolezza che, per ogni situazione risolta, mille altre rappresentano altrettanti “respingimenti” di uno Stato che ha bisogno di braccia giovani, ma che è succube della propaganda, perciò non sa come procurarsele.
Parteciperebbe a code chilometriche davanti agli uffici stranieri delle questure d’Italia, qualche volta accompagnate da richieste di danaro per accelerare la pratica per la concessione del permesso di soggiorno. Poi lotterebbe, per esempio, con scuole recalcitranti nell’accettare il principio che l’istruzione va garantita e non in dosi omeopatiche, come spesso accade con gli stranieri. I paesi europei a cui di solito ci ispiriamo stabiliscono come obbligo per la concessione del permesso di soggiorno proprio la frequenza a corsi intensivi di lingua e cittadinanza, da noi no.
Per non parlare dei documenti di identificazione personale o di quelli per l’assistenza sanitaria, dell’espletamento di qualunque funzione caratteristica di un cittadino residente in un paese. Districarsi nel groviglio di norme, moduli, regole e loro eccezioni, tabelle, circolari è cosa che mette ko anche il più scaltro. Per fortuna qua e là, funzionari e dipendenti coscienziosi si adoperano per lenire il disagio, ma il sistema è davvero un tritacarne. Eppure chiunque può vedere chi lavora nei cantieri, chi raccoglie la spazzatura, chi serve nei mercati, chi gestisce i piccoli negozietti aperti la notte, chi bada i nostri anziani, chi serve ai tavoli, chi lava le stoviglie e pulisce le verdure nelle cucine. Chi coltiva la terra, da cui traiamo i prodotti della “sovranità alimentare”, concia le pelli, cuce gli abiti del made in Italy. Invece troppi ancora, quando guardano, vedono solo chi spaccia, ruba e delinque, come se anche la malavita organizzata non avesse bisogno di manodopera senza identità per i lavori più umili.
In questo sta l’ipocrisia, non più sopportabile, a cominciare dai “viaggi della disperazione”. Non sono solo i barconi che affondano, i migranti che muoiono nelle pance dei Tir lungo al rotta balcanica. È che noi di quelle persone ne abbiamo bisogno. Costringerle alla lotteria della vita è certamente disumano, ma è soprattutto diseconomico. Anche questo è un disvalore che zavorra il sistema produttivo del paese.
Il Pd ha concretizzato la sua linea nel decreto Minniti (2017), col corollario dell’accordo con la Libia, una specie di pugno di ferro per stoppare l’immigrazione clandestina. Sofferenze e crudeltà ne genera ancora oggi, ma di stoppare l’immigrazione clandestina proprio non se ne parla, banalmente perché è un fenomeno che non si risolve così. Del Movimento Cinque Stelle si riscontrano i decreti Salvini varati dal Conte1 e tornati in auge con l’arrivo di Giorgia Meloni.
Nei due anni di operatività (da ottobre 2018 a dicembre 2020) hanno prodotto effetti opposti a quelli voluti, lo dice oggi lo stesso Giuseppe Conte. Quattro anni fa il suo primo governo aveva l’obiettivo di realizzare quanto più possibile del contratto fra due forze politiche antitetiche costrette a governare insieme dalle scelte del Pd renziano. Facile pensare che i decreti Salvini fossero l’amaro calice da bere in cambio del reddito di cittadinanza e delle altre misure che quel governo adottò.
Adesso è un altro tempo: è ora di dire quali sono le proposte per dare all’Italia un testo unico sull’immigrazione che parta dalla Costituzione (art. 3 e 10) passi per la “Dichiarazione universale dei diritti umani” (art. da 1 a 5, 9, 13 e 14) e arrivi a definire politiche di gestione dell’immigrazione rispettose della dignità umana e delle necessità del paese. Se non sarà di questa legislatura bisogna arrivare pronti alla prossima.
Lo attendono i tanti mondi che in questi anni hanno fatto fronte per evitare la barbarie, i volontari che battagliano tutti i giorni per far rispettare i diritti degli ultimi, lo attendono i tanti funzionari e operatori (pubblici e privati) che comunque provano a far funzionare le cose in un altro modo, lo attendono coloro che ben sanno che a forza di sposare le politiche della destra si finisce per diventare irrilevanti e incapaci di risolvere la rabbia che paralizza il paese. Politici, se vi interessa, vi invito a venire con me in giro per uffici. Vedrete lo Stato all’opera e non vi piacerà.