È l’ennesima anomalia italiana. Una società pubblica che ha la proprietà dell’intera rete elettrica ad alta tensione, realizza i suoi ingentissimi profitti quasi esclusivamente nel mercato regolato ma è quotata in Borsa dal 2005 e applica un regime di remunerazione degli investitori estremamente generoso. In pratica si indebita ogni anno non per fare solo investimenti sulla rete, ma almeno per un terzo della propria (ingente) posizione debitoria per far contenti azionisti che quasi al 60% non sono italiani. Stiamo parlando di Terna spa, unico “trasmission system operator” europeo (Tso) ad essere quotato in Borsa nel panorama dell’intera Europa (continentale e non). Ha un fatturato abbastanza stabile (2,604 miliardi di euro nell’ultimo bilancio del 2021, 2,2 dei quali derivanti dal mercato regolato), un ebitda (utili prima imposte e tasse) di 1,854 miliardi pari al 71,8% e un indebitamento netto di oltre 10 miliardi , cioè 3,7 volte il proprio fatturato. Purtroppo, solo parte del mostruoso indebitamento è imputabile agli investimenti per rendere la rete ad alta tensione pronta per lo sviluppo delle rinnovabili, degli accumuli e il completamento dei sistemi di connessione (per esempio il Thyrrenian link, fondamentale collegamento tra Sardegna e Sicilia, oppure quello verso la Tunisia).
La vicenda trae origine dalla dissennata scelta di quotare in Borsa la società in un piano di “privatizzazioni” che, come vedremo, ha prodotto costi maggiori per il sistema Paese (imprese e famiglie) anche per la decisione dell’allora amministratore delegato di Terna, Flavio Cattaneo, di rendere molto appetibile l’investimento nelle azioni della società. Dal 2004 al 2021 Terna ha distribuito 7,1 miliardi di euro in dividendi e solo un terzo (o poco più) sono rimaste nelle casse del pubblico grazie al fatto che il primo azionista è Cdp Reti che ha incassato nello stesso periodo 2,14 miliardi. Peraltro quasi un terzo di questi utili soddisfano gli appetiti di State Grid, la società pubblica cinese azionista di Cdp Reti dove sono state conferite le ricche partecipazioni in aziende ex pubbliche. Una scelta che alla luce dell’oramai dichiarata guerra economico-commerciale Stati Uniti-Cina non mancherà di suscitare pesanti attriti tra Roma e Washington.
Quasi tutti i restanti 5 miliardi sono finiti nelle casse dei grandi fondi di investimento (Blackrock, Vanguard, Rothschild) e di una miriade di investitori istituzionali (dal fondo pensione dei dipendenti di sperduti comuni dell’Artico a quello degli insegnanti australiani) che hanno acquistato pacchetti più o meno consistenti di azioni Terna perché attirati dalla generosa politica di attribuzione dei dividendi (soprattutto negli ultimi anni pre-bolla inflazionistica quando era praticamente impossibile trovare investimenti remunerativi a basso rischio essendo i tassi ufficiali sotto zero). Ovviamente questa generosa scelta di remunerazione degli azionisti non ha permesso a Terna né di fermare la crescita dell’indebitamento né di prendere in considerazione una riduzione delle tariffe di cui, oggi più che mai, avremmo potuto beneficiare come sistema economico.
L’intero impianto del sistema elettrico italiano è, da questo punto di vista, profondamente deficitario. Le grandi utilities sono tornate a guadagnare con i business regolati che mediamente pesano sugli utili lordi delle quattro principali aziende (A2A, Iren, Hera, Acea) per il 50% dell’ebitda. Vediamo nel dettaglio per comprendere quanto questa dinamica perversa possa impoverire gli azionisti pubblici (che in genere sono le amministrazioni comunali delle città dove le aziende sono nate) e i territori dove cittadini e imprese, pagando le bollette e le tasse rifiuti, contribuiscono in maniera determinante a produrre utili. Il primato dell’incidenza delle attività regolate sui profitti è senza dubbio di Acea (quarta multiutility per volume d’affari) con l’82%, grazie in particolare alla gestione dei servizi idrici che da sola ha determinato il 52% dell’ebitda nel 2021. Per il gruppo Iren, terza multiutility italiana sull’asse Torino-Genova-Parma Reggio Emilia e recentemente la Toscana, i settori denominati Rab (Regulatory asset based) o quasi-rab (come il comparto rifiuti e il teleriscaldamento) rappresentano il 70% dell’utile prima delle imposte. Inferiore la posizione del gruppo A2A, prima azienda del settore nata sull’asse Milano-Brescia ed ora presente sia verso il nord-est sia nel Sud, che nel 2021 registrava i settori regolati e contrattualizzati al 53%. All’ultimo posto Hera (l’azienda nata sull’asse Bologna-Rimini) che dichiara nel suo ultimo bilancio un’incidenza dei settori regolati pari al 44% del margine operativo lordo (ebitda).
Quanto di questa dinamica, come nel caso di Terna, produce di fatto un impoverimento del sistema paese a favore di investitori finanziari che hanno solo l’obiettivo di realizzare una reddittività elevata per la loro partecipazione è un interrogativo a cui dovrebbe rispondere Arera, l’autorità che deve, tra le sue competenze, “promuovere più alti livelli di concorrenza e più adeguati standard di sicurezza negli approvvigionamenti, con particolare attenzione all’armonizzazione della regolazione per l’integrazione dei mercati e delle reti a livello internazionale”.