Antonino Di Matteo non si pente di aver fatto “scoppiare il bubbone” sulla presunta loggia Ungheria. Lo ha raccontato durante nell’udienza nel processo bresciano che vede imputato Piercamillo Davigo per rivelazione del segreto d’ufficio. Il magistrato siciliano, che è consigliere uscente del Csm, ha raccontato – deponendo come testimone – di aver ricevuto il 18 febbraio dei 2021 i fogli in word di un apparente verbale reso dall’avvocato Piero Amara il 14 dicembre 2019 ai pm di Milano, Laura Pedio e Paolo Storari, in cui veniva raccontata l’esistenza della presunta loggia massonica, di cui avrebbe fatto parte anche l’ex consigliere Sebastiano Ardita. “Mi sembrarono accuse calunniose, individuabili a chiunque conosceva la storia di Ardita. Subito pensai a una manovra per screditare il consigliere e colpirlo soprattutto nella sua funzione di consigliere del Csm”, spiega Di Matteo, che ha raccontato di aver depositato una denuncia alla procura di Perugia. E poi di aver voluto esporre la questione a Palazzo dei Marescialli.

Il racconto dell’ex pm Di Matteo – Il 28 aprile 2021, dopo aver letto un articolo di stampa che riportava stralci dello stesso verbale che aveva ricevuto lui. Di Matteo decide di intervenire nella seduta del plenum. “Quando chiesi al vice presidente Ermini di riferire al plenum questo fatto personale, lui già lo sapeva. Mi fece cenno di andare nell’anticamera dove c’era l’allora pg della Cassazione Salvi, il quale insistette affinché non facessi nulla, dicendomi che aveva già preso contatti con la Procura, forse Milano“, ha detto Di Matteo. “Il pg Salvi mi invitò a non farlo, aggiungendo che era una questione che aveva già preso in mano”, ha ribadito l’ex pm di Palermo riferendo di una “battuta” poco prima del suo intervento al plenum. “Non mi sono pentito di aver fatto scoppiare il bubbone. Lo sapevano già tutti, lo sapevano i giornali. Secondo me era una cosa molto grave che quei verbali circolavano”.

La deposizione di Gigliotti – Oltre a Di Matteo hanno testimoniato due consiglieri uscenti del Csm, Fulvio Gigliotti e Giuseppe Cascini, l’ex senatore Nicola Morra. Gigliotti ha raccontato ai giudici che nell’estate 2020 l’ex pm di Mani pulite gli “riferì delle dichiarazioni di Amara su una presunta loggia denominata Ungheria di cui avrebbero fatto parte personaggi del mondo delle istituzioni, ecclesiastico e due componenti del Csm e mi raccomandò riservatezza. Mi disse che ne aveva parlato con altri consiglieri, Cascini e Marra, con il vice presidente Ermini e con il pg della Cassazione Salvi e che Ermini aveva informato il Quirinale” e quindi, “ho percepito fosse stato seguito anche un binario formale“. Il teste ha raccontato di quando venne a conoscenza dei verbali che Davigo gli mostrò: “Li sfogliai, ne lessi una decina di pagine” spiegandogli “che a noi non poteva essere opposto il segreto. Ma mi raccomandò riservatezza”. Gigliotti ha inoltre affermato di non aver percepito alcuna finalità nell’iniziativa di Davigo di informarlo delle dichiarazioni di Amara, “su cui convenimmo era necessario trovare riscontri, vere o false che fossero” . Gigliotti ha ripetuto più volte che Davigo gli disse che ai consiglieri del Csm non è opponibile il segreto, invitandolo però a non divulgare quelle informazioni. La stessa raccomandazione al ‘silenzio’ Davigo la fece anche al consigliere laico Stefano Cavanna citato pure lui nel processo. “Venni informato dell’inchiesta milanese che coinvolgeva molte personalità, tra cui Ardita e Mancinetti – ha detto Gigliotti – ma non ho mai visto i verbali. Davigo mi disse che era una cosa molto riservata e mi impose il silenzio. Io rispettai la consegna”. Davigo è imputato per rivelazione del segreto d’ufficio per il caso dei verbali dell’ex legale esterno di Eni su cui ha chiuso le indagini chiedendo l’archiviazione la procura di Perugia perché le dichiarazioni dell’avvocato non hanno trovato nessun tipo di riscontro. A Davigo i verbali che gli erano stati consegnati nell’aprile di due anni fa dal pm milanese Paolo Storari, assolto anche in secondo grado, per autotutela da una presunta inerzia dei vertici del suo ufficio. Sul punto l’ex procuratore capo Francesco Greco è stato archiviato.

Cascini: “La procura di Milano doveva inviare le carte al Csm” – Cascini ha raccontato di aver parlato più di una volta con Davigo della vicenda, collocando la prima discussione sul caso tra la fine di aprile e i primi di maggio 2020 e che vide quei documenti. “Ritenni che il Procuratore di Milano, non trasmettendo al Consiglio, non stava facendo il suo dovere: non stava rispettando la circolare che prevede che atti di fatti di possibile rilievo a carico di magistrati devono essere trasmessi al Csm anche se c’è il segreto, a meno che ci siano particolari esigenze investigative. Notai che non erano firmati e che sembravano una copia stampata dal computer, ma non ricordo di aver letto in calce che erano secretati“. Secondo la deposizione di Cascini nei colloqui con Davigo i temi erano “i consigli chiesti da Storari che si trovava in difficoltà per via delle resistenze dei vertici della Procura” e “le preoccupazioni per il coinvolgimento” nei verbali di Amara “di due consiglieri del Csm”, già investito da uno “tsunami” per la vicenda Palamara. “Da un mio punto di vista la Procura di Milano doveva fare iscrizioni e atti di indagine e poi trasmettere al Csm. Dissi che Storari doveva avvertire il suo Procuratore, il quale doveva trasmettere al Csm”, ha detto. Secondo il teste, quella del pm Storari “era una richiesta di consiglio” come “tante volte anche a me è capitato di ricevere dai colleghi” più giovani e, quindi, “non era una cosa che mi sembrava anormale. Era una comunicazione informale di un collega” che non era stata “formalizzata” dal Csm, perché i verbali non furono mai “trasmessi ufficialmente” al Csm, sebbene furono informati i vertici, ma non venne fatta e depositata all’ufficio di presidenza una relazione scritta“. Per Cascini, che ha coordinato come aggiunto a Roma una indagine a carico di Amara, quanto aveva raccontato ai pm di Milano “faceva tremare i polsi, ma la narrazione non era solida. La prima percezione è che si trattasse di un mischio di verità e finzione e quindi, il mio parere di pubblico ministero, è che bisognava fare indagini”.

Morra: “Consulenza ad Ardita naufragata dopo aver parlato con Ardita” – Oggi ha testimoniato anche l’ex senatore M5S Nicola Morra che ha raccontato come la prospettiva di nominare il consigliere del Csm uscente, Sebastiano Ardita, come consulente in qualche attività della commissione parlamentare antimafia è ‘naufragata‘ dopo aver saputo da Piercamillo Davigo che c’era il sospetto facesse parte “di una associazione che imponeva il vincolo della segretezza”. Per il caso Ardita è parte civile, ritenendosi danneggiato dalla diffusione di quelle notizie ritenute infondate. I verbali di Amara finirono sotto forma anonima infatti a diverse testate giornalistiche, comprese il FattoQuotidiano, che non pubblicarono i verbali apocrifi ma denunciarono il caso agli inquirenti. Per questo era finita sotto indagine Marcella Contrafatto, ex segretaria di Davigo al Csm, per cui il gup di Roma ha disposto ulteriori indagini accogliendo la richiesta della difesa. Morra ha spiegato di essersi recato in ufficio da Davigo nell’estate del 2020 per cercare di “ricomporre la frattura” tra Ardita e Morra “ai fini del lavoro della commissione che presiedevo. Mi ha invitato a seguirlo, dopo aver preso un faldone, sulla tromba delle scale. Vidi un foglio in cui lessi il nome di Ardita. E mi disse che faceva parte di un’associazione segreta di cui aveva parlato un dichiarante a una procura del Nord. Quindi, su mia domanda, mi suggerì non di rompere i rapporti ma di usare prudenza”. “Credo che il rifiuto di riallacciare i rapporti con Ardita fosse dovuto a queste dichiarazioni – ha aggiunto – e che mi avesse fornito questo dato al fine di evitare imprudenze”. Quindi l’ipotesi di una nomina di Ardita per qualche attività della commissione parlamentare” non è più diventata realtà”.

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