Il meccanismo (o il giochetto) è risaputo: con l’intento di criticare “il male”, se ne parla, lo si descrive, lo si cesella e ci si sfruculia fino a normalizzarlo, renderlo commestibile, scontato. Quando non lo si eroicizza tout court, com’è avvenuto con certe serie televisive sul malaffare nostrano e inseguendo ogni flatus vocis della politica, ridotta a circo e gossip.

E come avviene con il fascismo e Benito Mussolini, in tempi meloniani e sovranisti: il crapùn, el matt, il Cavalier Benito Mussolini non è mai stato così à la page, anche nell’editoria. In attesa di una bella serie tv con Pierfrancesco Favino, cos’altro ci sarà da scoprire sul duce? “La mascella al cortile, parlava – dice Francesco De Gregori in una canzone profetica, Le storie di ieri – Troppi morti lo hanno smentito / Tutta gente che aveva capito”.

E invece non s’è capito abbastanza e non bastano i morti provocati dal criminale di guerra: potremmo, please, concentrarci sul fascismo di oggi, sulle sue metastasi nel corpo della politica e nella psiche degli individui? Invece no, si rimesta più o meno banalmente in cronache ormai secolari.

Non lo fa la storica e saggista Mirella Serri, docente dell’università La Sapienza, che in Mussolini ha fatto tanto per le donne! (Longanesi) pone nettamente in risalto le codardie dell’uomo, i suoi aspetti di odiatore e seduttore seriale, sessuomane frustrato (“Il coito ossessivo è l’ultima risorsa degli impotenti” verrebbe da dire), l’individuo dal quale “emana un’energia animalesca” – con tutto il rispetto per le bestie – il socialista oltranzista che condivise le sparate futuriste e che disprezzava i “tranquillanti” socialisti riformisti, gli altoborghesi e nobili Filippo Turati e Anna Kuliscioff.

Con piglio narrativo la Serri ci riporta al birichén, al figlio del fabbro Sandreìn, padre ubriacone e violento, dal coltello facile, e alla madre maestra (altro che narrazione di origini da lumpenproletariat, siamo di fronte a un borghese piccolo, microscopico) al ragazzo frustrato che si fa disertore cencioso e fugge in Svizzera, viene aiutato dalle amanti e poi le disprezza, le stupra anche, trattandole “con la logica del postribolo” – ipse dixit – perché si ritiene “troppo sessuato per essere monogamo”.

Il giovane Benito vive in un mondo di maestrine, lavandaie, contadine e popolane, in un mondo femminile che disprezza e che reprimerà ferocemente grazie a una classe politica e una società spietatamente maschiliste.

Mirella Serri racconta il Benito legislatore e la corruzione del regime, ma anche il primo Mussolini giornalista, “saltimbanco delle parole” e vigliacco, geloso del rivale politico Claudio Treves, penna brillante: “Ogni volta che doveva affrontare una situazione spiacevole, rifiutare un articolo o licenziare qualcuno, rendere conto di una promessa non mantenuta, chiedeva a me di scrivere”, dice l’amante Angelica Balabanoff.

Certo, “Visto da vicino, nessuno è normale” (disse Franco Basaglia), ma qui abbiamo un narcisista egocentrico, un macho contorsionista, un “villico inurbato” che riversa nella politica e nella legislazione italiana tutte le sue paure e frustrazioni.

Un libro da leggere, insomma, oggi di fronte a guerre e ingiustizie insensate, di blandi detrattori che rischiano di eroicizzare Benito, di spolverargli il piedistallo contando le copie vendute. Vige la regola del “purché se ne parli”: anche in politica qualsiasi refolo diventa notiziabile e crea followers: quanto ci mancano Cuore e la rubrica del Chissenefrega (non quello mussoliniano).

Alla fine ingiustizia, aggressività, prevaricazione e la violenza (fisica o mentale) affascinano i mediocri e prevalgono in tempi nei quali l’auriga di Platone ha mollato completamente le briglie e i cavalli fanno quel che vogliono, specialmente quello nero.

Tutto fa Broadway, anche l’iracondo Masslón, Mascellone, di fronte al quale si dovrebbe fare un balzo all’indietro. Cosa c’è ancora da capire? Non sarebbe meglio pensare alla banalità del male, ai meccanismi descritti da alcuni psicanalisti nei quali l’osceno, ciò che dovrebbe restare “ob scenae”, che non si può rappresentare, finisce in pasto a una massa sfacciata, emulatrice, senza pudore e misericordia?

Che importa se i cavalli a Salò sono morti di noia? L’ha scritto Francesco De Gregori, aveva capito tutto parecchi anni fa: “A giocare col nero perdi sempre/ Mussolini ha scritto anche poesie/ I poeti che brutte creature/ Ogni volta che parlano è una truffa./ Ma mio padre è un ragazzo tranquillo/ La mattina legge molti giornali/ È convinto di avere delle idee/ E suo figlio è una nave pirata. /E anche adesso è rimasta una scritta nera/ Sopra il muro davanti casa mia/ Dice che il movimento vincerà/ I nuovi capi hanno facce serene/ E cravatte intonate alla camicia”.

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