“Il governo deve fare un atto di coraggio e trovare il modo di nazionalizzare o diventare socio di maggioranza. Solo così si può salvare la produzione di acciaio italiana. Costi quel che costi”. A rivendicarlo è stato Rocco Palombella, segretario generale Uilm, al termine del tavolo sulla vertenza ex-Ilva al Ministero delle imprese e del Made in Italy, al quale Acciaierie d’Italia non si è presentata. Un ulteriore “schiaffo al governo e ai lavoratori“, si spiega, dopo la decisione dell’azienda di bloccare 145 aziende dell’indotto con una pesante ricaduta occupazionale, in particolare a Taranto. Né l’amministratrice delegata Lucia Morselli, espressione del socio privato ArcelorMittal, né il presidente Franco Bernabè, espressione della pubblica Invitalia, hanno partecipato al faccia a faccia. Così i sindacati Fiom-Cgil, Uilm e Fim hanno proclamato 4 ore di sciopero nella giornata di lunedì in tutti gli stabilimenti (anche se a Taranto si ragiona su un’intera giornata).

“L’azienda non ha avuto neanche il coraggio di presentarsi al tavolo a negoziare con il governo e con i sindacati. Pensiamo che sia necessario scioperare per fermare l’eutanasia del gruppo e per poter ricontrattare tutto”, ha spiegato pure Michele De Palma, leader della Fiom. “Acciaierie d’Italia ha i giorni contati, con le 145 aziende dell’appalto ferme, 2 mila lavoratori coinvolti. Questo si aggiunge ai 2500 in cassa integrazione unilaterale iniziata da marzo e ai 1700 di Ilva in Amministrazione straordinaria. A marzo l’azienda aveva stabilito investimenti e tempi per la risalita produttiva. Si doveva risalire a 5,7 milioni di tonnellate nel 2022, siamo a poco più di 3 milioni di tonnellate. Insomma, continuiamo a non produrre disattendendo gli impegni assunti. Ma come può andare avanti il sito di Taranto con 2 altiforni e quasi tutti gli impianti di finitura fermi? La soluzione non è il miliardo, il miliardo va finalizzato”, ha sottolineato Palombella, chiedendo impegni concreti all’esecutivo: “Abbiamo apprezzato la buona volontà del neo ministro Adolfo Urso, ma della buona volontà i lavoratori non se ne fanno nulla. Il governo prenda atto che l‘unica azione è riprendersi il controllo dell’azienda“.

Da parte sua Urso ha sottolineato come sia arrivato il momento di “riequilibrare la governance” affinché “ci sia una risposta agli impegni presi”: La decisione sullo stop alle aziende dell’indotto è stata definita “improvvida” da Urso (all’oscuro della mossa nonostante avesse incontrato Morselli e Bernabè nei giorni precedenti all’invio della lettera alle 145 ditte estromesse dagli impianti, ndr). Il ministro si è però detto convinto che verranno rispettate le “scadenze” previste negli accordi se si lavora “insieme”. “Le richieste dei sindacati sul salire prima al 60%, rispetto al 2024 o nazionalizzare? Non possiamo ovviamente decidere tutto in pochi giorni, dobbiamo considerare tutti i fattori: sono tanti e ovviamente c’è quello produttivo, c’è l’aspetto giudiziario. Alla fine con Palazzo Chigi decideremo la strada da percorrere salvando questo sito produttivo”, ha tagliato corto.

Parole, quelle di Urso, che non rassicurano però i sindacati, convinti ormai che ArcelorMittal sia un interlocutore inaffidabile. E anche il presidente della regione Puglia, Michele Emiliano, è della stessa opinione: “L’insieme delle cose fanno ArcelorMittal il partner devo dire più inaffidabile che si possa immaginare per lo Stato italiano. Mi auguro che il governo attraverso l’aumento di capitale riduca il suo ruolo”. E ancora: “Questo per evitare che in futuro la città di Taranto sia nella sua componente industriale e nella sua componente sociale, tra virgolette, sottoposta a pressione. Non adopero la parola ricatto perché è troppo forte, diciamo pressione, però tra pressione ricatto alle volte il confine labile”, ha concluso Emiliano.

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