Che il calcio non sia uno sport Lgbt+ friendly è noto. Sport “maschile” per eccellenza, legato a forza fisica e competizione; e quindi ad aggressività e virilità. In tal tripudio machista non può esserci posto per l’omosessualità: per il tifoso medio, a prescindere da luogo di provenienza e fede politica, tale orientamento è atavicamente sovrapponibile all’effeminatezza e quindi alla fragilità. Qualità che in uno sport per “uomini veri” – poi possiamo discutere a lungo su cosa sia un “uomo” e cosa lo renda “vero” – non possono essere ammesse.
Come ci ricorda Giulia Moretti su Domani, “da un rapporto Fifa basato sul tracciamento dei social durante Euro2020 e Coppa d’Africa 2021 è emerso che oltre il 50 per cento dei calciatori ha ricevuto discriminazioni, la maggior parte di matrice razzista e omofobica”. E se non bastasse, “sono stati analizzati oltre 400mila post sulle piattaforme dei social media durante le semifinali e le fasi finali di due competizioni internazionali. I commenti omofobici sono stati il 40 per cento”.
Un’identità, quella calcistica, basata sul distanziamento (anche violento) del “diverso”. Per quella paura, più o meno inconscia, che non insultare qualcuno tirando fuori la carta dell’omosessualità poi possa divenire un boomerang sulla percezione (svalutante) della propria mascolinità. Cosa sulla quale sono stati versati fiumi d’inchiostro, nei libri di psicologia. A proposito di “uomini veri”.
Non stupisce, quindi, che i prossimi mondiali di calcio si faranno in un luogo omofobo e tirannico come il Qatar. Paese che ha ricordato ai tifosi omosessuali come ci si deve comportare dentro i propri confini: cioè rimanendo ben nascosti e non dichiarando il proprio orientamento in nessun modo (però lì, ragazzi, la colpa è pure un po’ vostra! Io non andrei mai in un posto che mi schifa in quanto gay, mi basta il mio). Ma non solo. Il Qatar ha molto da farsi perdonare per quanto riguarda il rispetto delle donne, dei diritti umani più in generale e – non ultimo – degli animali. Una nazione di simpaticoni, per definire il piccolo emirato in quattro parole.
Infatti secondo alcune statistiche ufficiali, come riporta il sito Luce, “dal 2010 al 2019 sono morti 15.021 lavoratori stranieri di ogni età e occupazione” per la realizzazione di questi mondiali. Accanto alle morti sul luogo di lavoro, va ricordato anche lo sfruttamento del lavoro migrante. Tutte criticità emerse nel libro inchiesta di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, dal titolo Qatar 2022, i Mondiali dello sfruttamento. Le cifre sono incerte, ricorda Luce, perché in Qatar è vietato organizzarsi in sindacati. I dati che abbiamo sono dunque parziali.
Per quanto riguarda le donne, sarà utile leggere cosa denuncia ancora Amnesty International. Discriminate “per legge e per prassi”, vivono sotto il controllo di “un tutore maschile, di solito il marito, il padre, un fratello, un nonno o uno zio” a cui rivolgersi per “chiedere il permesso per sposarsi, studiare all’estero, lavorare nell’amministrazione pubblica, viaggiare all’estero se hanno meno di 25 anni e accedere ai servizi di salute riproduttiva”. Inoltre, “il diritto di famiglia rende molto complicato il divorzio che, nei pochi casi in cui viene ottenuto, produce ulteriori discriminazioni di natura economica”. Dulcis in fundo, “le donne non sono protette adeguatamente dalla violenza domestica e sessuale”.
Tra le altre criticità ricordiamo la repressione della libertà di stampa e di associazione, il divieto di manifestare, per non parlare degli arresti discrezionali e dei processi sommari. Fino alla strage dei cani, uccisi a fucilate – come ricorda l’Espresso – per risolvere in modo sbrigativo (e barbaro) il problema del randagismo. Una situazione talmente complessa e ben oltre i limiti della disumanità che ha portato alcune star, come Rod Stewart e Dua Lipa, a declinare generose offerte per esibirsi alla cerimonia d’apertura.
Nonostante ciò, la Fifa non ha avuto problemi a organizzare un mondiale in un luogo siffatto. Anzi, in una nota ufficiale la federazione ricorda che si cerca “di rispettare tutte le opinioni e le convinzioni, senza impartire lezioni morali al resto del mondo. Uno dei grandi punti di forza del mondo è proprio la sua diversità, e se inclusione significa qualcosa, significa avere rispetto per quella diversità. Nessun popolo, cultura o nazione è ‘migliore’ di un’altra. Questo principio […] è anche uno dei valori fondamentali del calcio”.
Al centro, secondo la Fifa, deve rimanere il calcio. Chi se ne frega, poi, se ammazzano cani, arrestano le persone Lgbt+, se le donne sono schiave e gli operai pure. Evidentemente non sono queste le preoccupazioni per “uomini veri”.