Prolungare la data di scadenza di uno storico franchise è espediente poverello che prolunga l’agonia di un sistema economico e creativo che ha bisogno di sussulti, di rivoluzioni, o di normalizzante classicità dei tempi andati
La notizia, come riporta Variety, è che Disney starebbe preparando una serie sul franchise Indiana Jones. Il commento alla notizia invece è: basta! finitela! Chi scrive non ha mai pensato che la storia in senso lato, abbia sempre avuto un andamento progressivo, anzi. Il naturale avanzamento temporale degli eventi (storici, politici, comunicativi, artistici) non è sempre garanzia di evoluzione positiva degli eventi stessi. E nel mondo del cinema, che si è oramai avviluppato mortalmente ad ogni incredibile diavoleria industrial-finanziaria dello streaming, l’evidenza allo scatafascio è diventata regola (peraltro salutata ogni volta sia come “evento” imperdibile, sia come naturale proseguimento delle cose).
Abbiamo un’età sufficiente per ricordare l’effetto che i remake ebbero sulla cinefilia e sul pubblico generico. Una certa diffidenza iniziale fu d’obbligo, ma subito dopo, visto che spesso erano i nuovi cineasti classici del momento a rielaborare gli stampi tradizionali, ecco la seria e viva contemplazione. Pensiamo, giusto per qualche esempio importante, a quando negli anni ottanta/novanta prima Brian De Palma rifece Scarface di Hawks e Scorsese ridiede furente vita al Cape Fear di John Lee Thompson con Mitchum e Peck. Appunto, prima qualche nasino storto, poi l’analisi severa e talvolta perfino l’inneggiamento a capolavoro e superamento dell’originale. Un sano e costruttivo spirito di confronto e reinterpretazione, un po’ come nelle cover musicali. Da pari a pari. Poi è arrivato il momento dei sequel. O meglio: i sequel arrivano un pochino prima dei remake (anche se già qualche remake lo si faceva anche prima del dopoguerra). L’idea è quella di capire cosa succederà ulteriormente al personaggio amato nella matrice originaria. Si batte industrialmente il ferro finchè è caldo. Ovvio. Magari si inventa proprio con Indiana Jones, come per James Bond, una sorta di appuntamento fisso a cadenza triennale o giù di lì. E se, come in Rocky, nei sequel c’è una sorta di consequenzialità temporale, in Rambo si rimescolano un po’ le carte, quasi ci si trovasse di fronte ad un continuo reboot. Anche qui, mescola e rimescola le strutture, si fanno ripartire i franchise più popolari come ci fosse qualcosa rimasto inevaso alle origini del personaggio. L’operazione commerciale è chiara, la curiosità può pure essere tanta.
Il problema però è quando si arriva ad una sorta di sfibrante parossismo spacciato per grande trovata creativa quando invece è anonimo borbottio post prandiale di executive costretti ad andare a sostenutissimo ritmo streaming che, produttivamente parlando, è un po’ la strategia delle pagnotte scongelate negli iperpermercati la domenica facendo credere ai clienti che c’è “pane fresco”. Ora, se dopo quattro sequel, e già accenni di impresentabile serialità (Il giovane Indiana Jones, 1992-93, sulla ABC), siamo al quinto e definitivamente ultimo film del franchise dell’archeologo più celebre al mondo, il paventarsi concretamente l’ipotesi che si debba sapere, creare, girare, produrre anche un altro spin off o prequel per rilanciare Indy&co in accompagnamento all’ultimo film, ecco possiamo anche chiedere di fermarvi qui? Raschiare il fondo del barile, come si cerca di fare con le slabbrate, fruste, banalità narrative del Marvel Cinematic Universe con Kevin Feige che annuncia “fasi” su “fasi” che nemmeno i piani quinquennali dell’Unione Sovietica, è accanimento distruttivo della memoria e anonimo annaspare industriale. Possiamo insegnare alle nuove generazioni di spettatori e alle solite volpi dello sfruttamento commerciale capitalistico cosa significhi il concetto di “FINE”? Sì, il “the end” dei film, proprio quello? Significa chiudere un cerchio, filosoficamente e culturalmente, e aprirne semmai di nuovi. Significa sbattersi, amici creativi cari. Significa rischiare insuccessi, flop, fallimenti, proprio come la United Artists con I cancelli del cielo di Cimino. Non amate il libero mercato, eh? Prolungare la data di scadenza di uno storico franchise è espediente poverello che prolunga l’agonia di un sistema economico e creativo che ha bisogno di sussulti, di rivoluzioni, o di normalizzante classicità dei tempi andati. Insomma, rilasciate immediatamente Indiana Jones. E fatelo sulla parola. “Altrimenti… ci arrabbiamo”