La ragion di Stato americana prevale di nuovo sulla giustizia. Mantenere saldi i rapporti con quello che, tra alti e bassi, rimane un partner strategico nell’area, l’Arabia Saudita, vale più della verità giudiziaria sull’omicidio del giornalista saudita del Washington Post, Jamal Khashoggi. Con la decisione del Dipartimento di Giustizia americano di chiedere, in quanto nuovo premier, l’immunità per Mohammad bin Salman nell’ambito del procedimento avviato dalla fidanzata del giornalista, Joe Biden compie il suo ennesimo tradimento elettorale, rinnega l’atteggiamento intransigente promesso poco più di un mese fa dopo la decisione dell’Opec+ di tagliare la produzione di petrolio e soprattutto lancia un messaggio chiaro agli autocrati di tutto il mondo: un capo di Stato o di governo che ordini l’omicidio di un oppositore politico può farla franca negli Stati Uniti. Soprattutto se si tratta di un alleato.
Questo nonostante sia stata proprio l’intelligence americana, in un suo corposo report circolato a febbraio 2021, poche settimane dopo l’insediamento di Biden alla Casa Bianca, a indicare il principe ereditario come colui che ordinò allo squadrone della morte partito da Riyad in direzione di Istanbul di uccidere il reporter e far sparire il suo corpo. Con quel report e dopo le dichiarazioni elettorali di Biden che si espose in prima persona sul caso, sembrava che quell’amicizia incondizionata tra Washington e gli al-Saud promossa da Donald Trump fosse stata rivalutata. Fu l’allora candidato Dem ad affermare, in un comunicato diffuso il 2 ottobre 2020 in occasione del secondo anniversario dell’uccisione del giornalista, che “Jamal Khashoggi e i suoi cari meritano responsabilità. Sotto un’amministrazione Biden-Harris, rivaluteremo il nostro rapporto con il Regno, porremo fine al sostegno degli Stati Uniti alla guerra dell’Arabia Saudita nello Yemen e ci assicureremo che l’America non metta da parte i suoi valori per vendere armi o acquistare petrolio. L’impegno dell’America nei confronti dei valori democratici e dei diritti umani sarà una priorità, anche con i nostri più stretti partner di sicurezza. Difenderò il diritto di attivisti, dissidenti politici e giornalisti di tutto il mondo a esprimere liberamente la propria opinione senza timore di persecuzioni e violenze. La morte di Jamal non sarà vana e dobbiamo in sua memoria lottare per un mondo più giusto e libero”. Oggi, queste promesse sembrano non aver più alcun valore.
Le avvisaglie sull’atteggiamento ambiguo dell’amministrazione nei confronti del Regno degli al-Saud, in realtà, erano già emerse in più occasioni. Già nel giorno in cui venne diffuso il report dell’intelligence, Washington annunciò sanzioni contro 76 individui ritenuti responsabili o legati alla macchina repressiva della petromonarchia, evitando però di includere nella lista proprio colui che veniva indicato come il mandante dell’omicidio Khashoggi. Una decisione che provocò la reazione della compagna del reporter, Hatice Cengiz, ma anche della relatrice speciale delle Nazioni Unite per le esecuzioni extragiudiziali, Agnes Callamard, secondo cui “è estremamente problematico, se non pericoloso, riconoscere la colpevolezza di qualcuno e poi dire a quel qualcuno che non faremo niente”.
Mohammad bin Salman sa però di avere un’arma potentissima tra le sue mani, capace di piegare qualsiasi presa di posizione, anche rigida, delle più grandi potenze mondiali, la stessa che ha regalato al regno tanta rilevanza in campo internazionale: il petrolio, meglio se a buon mercato. E lo scoppio del conflitto ucraino, con conseguente crisi energetica e degli approvvigionamenti, lo ha favorito non poco. Tanto che lo stesso Biden ha dovuto umiliarsi pubblicamente rimangiandosi quella definizione di “Stato paria”, utilizzata proprio per descrivere la monarchia del Golfo dopo l’omicidio Khashoggi, decidendo di recarsi in prima persona a Riyad per incontrare il principe ereditario nella speranza di frenare l’ascesa irrefrenabile dei prezzi dell’energia. Nessuna stretta di mano tra i due, ma solo un tocco di pugno nel tentativo di rimarcare le distanze. Un ‘pugno della vergogna’ per coloro che vedevano nel nuovo presidente Usa colui che avrebbe messo fine alla luna di miele tra Washington e Riyad rilanciata dal trio Trump-Kushner-Mbs. Al termine di quel bilaterale, Biden volle rimarcare di aver affrontato il tema con il principe, ma la ricostruzione fornita non fece altro che peggiorare la sua posizione: “Ho detto al principe ereditario Mohammed bin Salman che penso sia personalmente responsabile per l’uccisione di Khashoggi. Il principe mi ha risposto che non ha responsabilità per l’uccisione di Khashoggi”.
L’ultimo attrito tra Biden e Mbs risale all’inizio dell’ottobre scorso, quando nonostante le richieste americane l’Opec+ decise di tagliare la produzione di 2 milioni di barili di petrolio al giorno con conseguente innalzamento dei prezzi. Una mossa che mandò su tutte le furie proprio il presidente che prese posizione pubblicamente: “Non era necessario – dichiarò -, l’Opec+ si sta allineando con la Russia. L’Arabia Saudita ne pagherà le conseguenze“. Tra le opzioni allo studio della Casa Bianca c’era, almeno fino a un mese fa, anche quella di stoppare la vendita delle armi Usa a Riyad. Per il momento, però, l’unica conseguenza dell’ennesimo sgarbo è stato il favore concesso al principe ereditario: la richiesta d’immunità per l’omicidio di Jamal Khashoggi.