Il refrain per la giovane prostituta nigeriana chiamata Princess (Gloria Kevin, nella realtà una vera prostituta) che batte i margini della strada nella lontana periferia di Roma verso il mare, è sempre lo stesso: con 30 euro soddisfa i clienti che si susseguono. Giovani, vecchi, frettolosi, imbarazzati, violenti, ma tra loro il principe azzurro in forma di redenzione sembra non arrivare mai. Dopo il concorso nella sezione Orizzonti di Venezia 79 esce nelle sale italiane Princess di Roberto De Paolis. Sorta di fiaba cupa e spoglia sul disumano degrado contemporaneo che accoppia migrazione incontrollata e ricattatoria, con la vendita a prezzi stracciati del proprio corpo e della propria sessualità. Roberto De Paolis ha 42 anni, è figlio del celebre distributore Valerio De Paolis (la storica Bim, poi Cinema) ed è al suo secondo lungometraggio dopo Cuori Puri (2017).
Princess esce in sala in un momento durissimo per il cinema italiano: bassissimi incassi, rapporto con il pubblico da ricostruire nel post Covid… avresti preferito uscire in un altro momento?
La realtà va affrontata cercando di capire che sta succedendo attorno a noi. In questi giorni si è riaccesa la polemica politica rispetto agli sbarchi nel Mediterraneo e Princess è un film su una ragazza immigrata che fa la prostituta. Gloria Kevin, la protagonista, questa odissea l’ha vissuta, anche se noi non la abbiamo raccontata. Speriamo ci sia quindi un pubblico che vuole sentire queste storie non solo dal punto di vista della cronaca o delle polemiche ma anche da un punto di vista personale ed intimo.
Domanda secca: perché uno spettatore deve scegliere in queste ore di andare al cinema a vedere Princess?
Perché credo che sia uno dei pochi film italiani che negli ultimi anni affronta il problema dell’immigrazione dal punto di vista di un immigrata e non da quello di un italiano che fa un film sugli immigrati. Princess è un film di un italiano che prova a guardare l’Italia attraverso gli occhi di una prostituta nigeriana. È un punto di vista originale e nuovo.
Il tuo film ha sembianze formali di una fiaba cupa e nera (il bosco, i sacrifici animali, i poliziotti a cavallo, il “principe azzurro”)…
L’intenzione era di darci questo taglio, ma sono tutti elementi comunque usciti dalla ricerca documentaria. Il bosco dove vivono e lavorano queste ragazze è vero. Lì abbiamo trovato gli animali che vedete nel film, la polizia a cavallo gira davvero e c’è una parte forte di magia legata alla “fede” delle ragazze nigeriane che mescola cristianesimo e animismo. Anche l’archetipo del principe azzurro che può aiutarle esiste nella mente delle ragazze. Io non ho fatto altro che registrare quello che era davanti ai miei occhi.
Hai provato ad uscire da un certo realismo all’italiana filtrandolo in maniera meno usuale o è solo una nostra impressione?
No, a me il cinema del reale mi arriva molto forte. Leggo articoli dove si dice “basta film realisti”, invece se ne fanno così pochi anche solo rispetto alle commedie o a film meno interessanti. Spero ce ne siano di più. Poi uno condisce i proprio lavori con le suggestioni che vuole, ma l’impianto di Princess è da cinema del reale. Uno sposalizio tra documentario e finzione. Poi ecco per me il cinema del reale non deve indorare la pillola: non devi compiacere il pubblico e farlo andare a casa tranquillo.
Hai incontrate difficoltà nel lavorare su un set di questo tipo facendo recitare attrici non professioniste come le ragazze nigeriane (il resto del cast è composto da attori professionisti come Lino Musella e Maurizio Lombardi ndr)?
Tanti. Il mio controllo da regista si è ridotto ai minimi termini. Quando si lavora con non professionisti è così. Queste ragazze si sentivano di stare in scena e fare diversamente da quello che avevo pensato all’inizio, così ho cambiato spesso parti di sceneggiatura. È stato un lavoro impetuoso e tempestoso, non di esecuzione ma di scoperta.
La comunità amicale e nazionale attorno alla protagonista nel film si sgretola: è un aspetto reale che hai verificato nella situazione che hai raccontato o hai calcato la mano?
Le relazioni amicali e personali su cui basiamo la nostra vita solida socialmente ed economicamente sono un privilegio. L’amore e le amicizie in mondi in cui si lotta per sopravvivere passano in secondo piano perché il problema è solo quello di mangiare. Le ragazze in quel caso creano alleanze per sopravvivere, ma se qualcosa va storto non hanno alcun ripensamento nell’eliminare la persona che sta creando un problema.
Gloria Kevin: come l’hai trovata e come ha lavorato con te?
Era una ragazza che ancora lavorava sulla strada quando l’ho conosciuta. All’inizio non ha capito che film fosse. Aveva molti dubbi. Pensava di essere nuovamente sfruttata. A un certo punto ha capito: l’abbiamo aiutata nei documenti, nell’ottenere una casa. Era un reciproco scambio anche di attenzioni. Ha capito che attraverso Princess poteva raccontare la storia di tante ragazze africane come lei e la cosa l’ha stimolata ad impegnarsi. Le ho impostato il lavoro in modo molto libero facendole liberare energie che lei – vista anche la prigionia in Libia – in questi anni aveva compresso.
La tua firma a regista ha valore festivaliero. Il festival di Venezia ha fatto di tutto per averti e non lasciarti a Cannes. In questo momento i grandi festival hanno ancora valore di lancio per lavori come il tuo?
Sicuramente a livello internazionale è importante che produttori sappiano che sei stato a Venezia o Cannes. Penso che i festival funzionino molto per motivare registi e autori per film di qualità. Se non esistesse l’ambizione a partecipare a festival del genere tutti perderemmo parte delle nostre motivazioni a livello antropologico. I festival servono per dare motivazioni forti per ingaggiare sane competizioni non solo economiche, quanto un film incassa, ma intellettuale-artistica. Senza festival morirebbe l’idea di fare certi film.
A quanto ammonta il budget di Princess?
Sui 2 milioni e mezzo di euro. Un film piccolo-medio per la produzione italiana. Lo spirito di questo film non è quello a tutti i costi di incassare. È un momento particolare come dicevamo prima, vediamo cosa riusciamo a far accadere.
Roberto De Paolis è uno spettatore “forte? Va al cinema spesso? Vede molto streaming?
Il mio modo di essere spettatore si divide in due dimensioni diverse: la prima è la ricerca che faccio che passa attraverso la sala cinematografica. È la parte più religiosa, mistica, da preghiera, dove non guardi mai il telefono, rimanere al buio della sala dall’inizio alla fine. Poi ovvio nel mondo di oggi esiste una realtà più distensiva, rilassante, dove uno guarda film e si interrompe, fa due risate, manda un messaggino. È una dimensione che oramai fa parte della nostra vita, ma la separo da quella più seria/religiosa.
Princess si potrebbe produrre e distribuire su Netflix o su un altro canale streaming?
Distribuirlo sì, sarebbe possibile. Una volta prodotto il film, una parte di pubblico Netflix potrebbe apprezzarlo: hanno profili di spettatori di ogni genere tra gli abbonati. Produrlo invece sarebbe più difficile. Un film così non seguirebbe determinati schemi produttivi predefiniti a livello strategico dalle piattaforme streaming commerciali.