Politica

Sinistra da rigenerare: c’è convergenza sui temi, ma non si parla di mafia. Eppure siamo in Italia…

“Così non va, Veronica!”. Iniziava così una fortunata canzonetta di qualche anno fa, cantata da Edoardo Bennato, che oggi potrebbe andare bene per rappresentare un certo dibattito sulla rigenerazione della sinistra italiana (perché “rifondazione” non si può dire).

Sicuramente il fermento è grande sotto il cielo, tra teatri, libri e caminetti: Bettini, Conte, Schlein, Bonaccini, Nardella, Speranza, Bonelli, Benifei… Per citare soltanto alcuni di coloro che si stanno distinguendo nella grande conversazione in pubblico e in privato sul futuro da dare al campo avversario della destra, perché l’Italia abbia un futuro differente da questo presente inquietante.

Sull’indice degli argomenti che dovrebbero rendere vincente la “nuova sinistra organizzata” si registra una sostanziale convergenza: crisi climatica e crisi sociale ai primi posti, quindi conversione del modello produttivo ed energetico, occupazione (soprattutto giovanile, visto che in tanti preferiscono ancora cercare fortuna all’estero), reddito di cittadinanza, scuola, difesa del pluralismo esistenziale e della laicità delle Istituzioni, cooperazione internazionale versus suprematismo bellicoso, Europa e corresponsabilità difronte alle massicce migrazioni, difesa della sanità pubblica (anche se su questo ultimo punto non c’è forse una convergenza così chiara, se Rosy Bindi ha recentemente affermato che qualora il Pd avesse candidato Letizia Moratti in Lombardia avrebbe rifatto la tessera del partito, soltanto per poterla strappare pubblicamente, proprio denunciando la distanza siderale tra la concezione della sanità voluta da Moratti&C. e la riforma che fu di Tina Anselmi e che Bindi da ministra difese e radicò nel Paese).

Tutto bene. Se non che un indice del genere potrebbe andare funzionare anche per la “Nuova sinistra organizzata” in Francia, Spagna, Germania. Peccato però che siamo in Italia. O se preferite: per fortuna però che siamo in Italia.

Forse allora sarebbe il caso di considerare quello specifico fattore di disuguaglianza sociale che sono le mafie. La storia delle mafie, che è storia della nascita stessa dell’Italia unitaria, che è storia della formazione di classi dirigenti, che è storia di “questione meridionale”, che è storia di democrazia malata, anestetizzata da abusi di potere nei quali criminali mafiosi e non si sono saldati e hanno prosperato in un dilagare di clientelismo corrotto, che ha arrugginito le Istituzioni e mortificato tante buone energie.

Mafia, che è metodo mafioso fatto di potere affermato attraverso la forza di intimidazione di clan variamente intesi, i più pericolosi dei quali non sparano, non trafficano droga, armi e rifiuti, ma influenze e conoscenze, praticando evasione fiscale, carrierismo selettivo e accumulazione criminale di patrimoni.

Mafia, che vuol dire ferite aperte per migliaia di familiari di vittime che ancora spettano verità e giustizia.

Mafia, che vuol dire cappa di paura nella quale vivono ancora troppi cittadini da Nord a Sud, come segnalano, tra gli altri, il caso del testimone massacrato di botte a Torino dopo aver denunciato usura ed estorsione, l’aria pesante che si respira a Foggia, una Ostia non redenta nella quale gli Spada provano ancora a comandare, un feroce caporalato rurale che inquina le campagne dell’agro pontino, della capitanata, del reggino, come di certe zone del Piemonte.

Se “Sinistra” è libertà, non tanto per chi ce l’ha già e la vuole preservare (per questo basta la destra), ma per chi non ce l’ha e la vuole conquistare, allora la mafia, con tutte le sue mefitiche declinazioni, dovrebbe essere al centro del confronto della “Nuova sinistra organizzata”. Questa dovrebbe essere la lezione imparata soprattutto dai tanti sindacalisti assassinati: da Placido Rizzotto fino a Pio La Torre. Così non è, purtroppo.

Non basta, allo scopo di dare centralità alla questione mafia, il pur meritevole impegno a portare in Parlamento figure di primordine del fronte antimafia. Non basta tenersi aggiornati sulle ultime spifferate di un Baiardo o non farsi cogliere impreparati su anniversari e ricorrenze. Non basta tuonare in campagna elettorale contro i voti che la mafia sa portare. Perché avere coscienza della profondità e del pericolo rappresentato dalle mafie in Italia significa saper legare tutto questo ad una promessa politica decisiva: quella di rifondare (qui si può usare) il patto di fiducia tra cittadini e Stato, un patto che fatalmente passa per la credibilità dei partiti. Un patto che è stato sabotato al punto che l’astensionismo elettorale supera il 50 per cento. Chi si incarica di questa promessa e come?

Bisogna fare in fretta, l’ho già scritto, prima che lo sconforto prenda di nuovo la via della violenza politica. Perché, aggiungo, dopo la violenza “politica” arriva sempre quella mafiosa, che può così ritrovare ragioni più alte per manifestarsi. Ragion di Stato.