Mentre il villaggio del tennis allestito attorno al Pala Alpitour si affolla (come non mai) di appassionati radicali o improvvisati dell’antico sport con la racchetta, dentro agli animi dei protagonisti si assiepano pensieri, tra gioie, speranze e tormenti. Succedeva allora, succede ai nostri tempi, appartiene all’agonismo sportivo e alle sue tensioni, all’isteria popolare specchiata nello strapotere di media e sponsor, alle aspettative di tutto quanto mescolato insieme. Paradiso dei vincenti e inferno dei perdenti, mentre sugli spalti si beve birra (a differenza degli stadi del Quatar).

Come s’intuisce dallo speaker che dall’altoparlante urla e declama l’atavica forza e resistenza dei “Fab 8” come fossero gladiatori al Colosseo mentre il dj appostato in console spara pezzi da discoteca, chi entra nell’arena non può che prestarsi al gioco del massacro. Certo, i “campioni” capaci di arrivare alle Finals (ex Masters, in cui si sfidano in due gironi all’italiana gli otto tennisti che nell’anno solare hanno accumulato più punti nella classifica Pepperstone ATP) sono abituati allo stress, in costante e preoccupante aumento visto il calendario affollato del circuito professionistico, ma non per questo arrivati qui, nella “arena del massacro, questi giovani miliardari sono esentati dal tirar fuori il meglio di tutto quanto hanno, e soprattutto non hanno dentro.

E dunque proprio ieri, venerdì 18 novembre, è stato emblematico vedere le reazioni diverse e opposte di due tra i protagonisti in campo nei singolari della sesta giornata. Da una parte, l’inossidabile serbo Novak Djokovic, e dall’altra il “filosofico” greco Stefanos Tsitsipas. Il primo impegnato nel pomeridiano quanto inutile match contro l’umorale russo Daniil Medvedev già eliminato dalla gara, il secondo in campo in serata nella sfida contro un altro russo, “l’elettrico” Andrey Rublev, che gli valeva l’accesso in semifinale e il secondo posto nella ranking.

In definitiva: il “Djoker” ha combattuto come un pazzo per 3h 11’ contro il nemico di nervi e d’orgoglio, finendo stremato una pericolosa maratona che l’ha certamente affaticato, perché oggi Novak tornerà in campo nella propria semifinale (contro l’outsider americano Taylor Fritz); Tsitsipas, invece, dopo aver dato bella mostra del proprio magnifico tennis nel primo set – in cui sembrava già in trionfo contro l’amico d’infanzia moscovita – inspiegabilmente è crollato, sublimando pensieri e nervosismi in una sconfitta surreale contro un avversario che ha avuto più calci di rigore che punti conquistati, senza nulla togliere alla notoria “potenza di fuoco” del suo diritto.

Il pubblico, che esplode di sapienze istintive ma dimentica in fretta e cambia bandiere velocemente quasi quanto i politici, ha capito subito, voltando le spalle all’aitante ellenico e sposando il generoso “tamarro” dai rossi capelli, che qui come il collega Medvedev gareggia da neutrale.

Al di là dei valori oggettivi o soggettivi espressi dai protagonisti dei due diversi match, in cui il primo è stato “vinto” da Djokovic e l’altro è stato “perso” da Tsitsipas, ciò che sembra evidenziarsi è qualcosa che supera lo sport e pertiene al superamento della sottile linea esistenziale che distingue i figli dai genitori. Un’identità che neppure ha a che fare con l’età, seppur tra i due ci siano ben 11 anni di differenza. Diventare genitori, come Novak, e restare figli, come Stefanos.

Esemplari i box dei giocatori dove siedono famiglia e team tecnico: per il serbo erano accomodati la moglie e i due figli piccoli, per il greco i due ingombranti genitori, che sono anche “allenatori”. Si badi bene che la distinzione non riguarda la specificità di avere o meno prole, si tratta di atteggiamento, di senso di responsabilità.

A confronto di questo, basta ricordare che Rafa Nadal – il grande sconfitto di queste Finals, che ma che ha lottato da leone come sempre, vincendo l’ultimo match inutile ma a lui utilissimo contro Casper Ruud – è appena diventato papà, ma il suo atteggiamento era già di genitore “verso se stesso”. Di campioni, di padri e di figli. Ovvero di ragazzi chiamati a crescere ma che non riescono a tagliare il cordone ombelicale, e di ragazzi “costretti” a crescere, o di ribelli, che vacillano e poi divengono “genitori”, a prescindere dai loro figli.

Libri si potrebbero scrivere su un argomento che vale il senso della vita relazionale dell’uomo, ma la giornata delle Finals di ieri è sembrata emblematica per almeno sfiorarlo.

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