Calcio

La Fifa vieta la birra, tifosi e sponsor a secco durante i match: che se ne facciano una ragione!

Fino a poche ore fa l’unica curiosità ritrovata, scrollando senza attenzione il fiume dei social, che collegasse il Mondiale di Calcio in Qatar alla mia passione per la birra era la notizia (se così si vuole chiamare) del tifoso inglese che si era procurato una bottiglia o una lattina da ognuna delle nazioni partecipanti al torneo, con il proposito di onorare ogni paese che via via sarebbe stato eliminato brindando alla sconfitta con la produzione di casa.

Zoomavo sulla fotografia che ritraeva il giovane e la sua collezione, senza nemmeno chiedermi quanto altro tempo avrei dedicato a questo nulla dell’informazione, e tutt’al più ghignavo con antipatica sufficienza leggendo i nomi delle etichette e annegandole tutte nella stessa indifferente categoria delle lageracce senza identità: altro che espressione delle culture dei paesi che le producono.

Poi è scattato, nelle scorse ore, un altro clic ben più interessante e sicuramente destinato a rimbalzare, se non tra le agenzie di stampa di tutto il mondo, almeno tra i rilanci delle notizie del web: la Fifa ha infine vietato ai tifosi che frequenteranno gli stadi nuovissimi dell’emirato, a due giorni dal primo fischio di inizio, di consumare birra all’interno dei perimetri degli impianti. Resta salva la possibilità di bere alcool, tiene a far sapere la Federazione che governa il calcio mondiale, negli spazi organizzati del Fifa Fan Festival e in altri locali autorizzati, come ad esempio i lounge bar dei grandi hotel.

In un primo momento era stato chiesto a Budweiser, sponsor e fornitore ufficiale di birra per la fase finale del Mondiale, di spostare i tendoni rossi di servizio in zone più marginali, lontane dagli sguardi di disapprovazione morale degli ospitanti. Con il nuovo giro di vite, a pochissime ore dall’inizio dell’evento, si ripristina dunque la regola che disciplina la mescita di bevande alcooliche nella nazione del Golfo: vietate in pubblico, permesse (a prezzi elevati) negli spazi neutri frequentati dagli occidentali.

Come prima riflessione mi sono chiesto: chissà come la prenderà Budweiser, forte di un accordo di sponsorizzazione da 75 milioni di dollari pagati ogni 4 anni? Basteranno le parole del comunicato della Fifa, che “apprezza la comprensione e il continuo supporto” del gigante americano, per cancellare gli sforzi logistici e le spese di una fornitura così importante cancellate all’ultimo minuto? Immaginate la quantità di lattine già arrivate a Doha e stoccate in fresco mentre fuori sono costanti i 30°, il personale addestrato, persino i bicchieri di plastica, divenuti improvvisamente superflui. Quanti litri di birra avranno spedito dal Missouri per dissetare i tifosi di 64 partite in impianti con capienze dai 40mila in su? A quanto ammonta la perdita di esercizio se, come riporta un’indiscrezione di Reuters, nello spazio Fifa Fan il costo di una pinta sarà di oltre 14 dollari?

Scatta poi, ovviamente, una riflessione più profonda sulle differenze culturali, sulla generale opportunità di far ospitare un evento come la coppa del Mondo ad un paese che presenta evidenti criticità e non è chiaramente sintonizzato con le nostre sensibilità e con le convinzioni che ormai popolano le nostre coscienze da almeno un secolo, e allora la conclusione che mi sono dato è che questo divieto sulla birra negli stadi è un problema veramente da poco.

Pazienza se i tifosi si berranno un surrogato analcoolico o tutt’al più una bottiglia d’acqua, nulla andrà a togliere allo spettacolo messo in piedi nel corso degli ultimi 10 anni dagli emiri e dall’organizzazione del pallone con sede a Zurigo. Uno spettacolo che nasconde dietro alle luci, ai concerti, all’efficienza e allo splendore costruiti sul deserto un panorama desolante sul fronte dei diritti civili per chi viene dalla nostra cultura e dalla nostra parte di mondo: quella che si diverte a bere una, due o mille birre allo stadio.

Come denuncia prontamente Amnesty International nella ricerca guidata da Riccardo Noury e pubblicata la scorsa settimana, in Qatar sono ignorati i diritti di associazione e di espressione della propria identità sessuale, le libertà di stampa e di organizzazione sono vietate, la dignità delle donne è discriminata e calpestata. Fino allo scandalo delle migliaia di lavoratori stranieri morti in questi anni nei cantieri dell’Emirato per costruire il baraccone che apre domani, sui destini dei quali le autorità non hanno dato spiegazioni.

I tifosi non avranno una birretta prima, durante o dopo la partita della loro squadra? Che se ne facciano una ragione, e che piuttosto iniziassero a pensare se valeva davvero la pena alimentare un circuito corrotto e sbagliato sin dall’inizio.

Sull’argomento è intervenuto anche prima del divieto negli stadi Brewdog, produttore scozzese con sedi e impianti sparsi in tutto il mondo. Non può stupire, conoscendo l’abilità del gruppo guidato da James Watt nel cavalcare le grandi questioni sociali e politiche e trasformarle in messaggi di marketing per le proprie etichette. Ecco che da qualche settimana Brewdog si presenta ufficiosamente come “orgoglioso antisponsor della fottuta Coppa del Mondo”, e promette di destinare gli interi ricavi della loro Lost Lager venduta nei giorni della competizione alle organizzazioni che operano per la tutela dei diritti civili e delle libertà in Qatar. Con tanto di cartelloni sparsi per Londra e resto della Gran Bretagna concepiti dalla genialità creativa di Watt e compagnia, coadiuvati in questo caso dall’agenzia Saatchi & Saatchi.

Un’operazione meritoria e furbetta come tante altre del gruppo scozzese, che continuerà a trasmettere le partite del Campionato nei propri locali dove servirà anche altre birre, oltre alla Lost Lager, e che non disdegna di vendere il suo prodotto nell’Emirato attraverso il monopolio di distribuzione controllato da Qatar Airways “Qatar Distribution Company”. Se è ipocrisia, ci è dato pensare, è la stessa di uno stato che vieta di consumare alcool in pubblico mentre lo permette nelle terrazze dei bar degli alberghi di lusso. Come colpevolizzare d’altronde una compagnia che nasce e cresce per fare soldi, se decide nel processo di ricerca di successo e affermazione di assumere posizioni e prese di coscienza più o meno condivisibili?

A noi consumatori di informazioni, lettori e portatori di libere opinioni, invece, tocca un ruolo che mai dovrebbe essere dimenticato: fare la tara dei messaggi e delle informazioni che ci arrivano, e decidere in autonomia che alcune notizie sono più importanti di altre. E che avrebbe più senso condividere, ad esempio, il dossier di Amnesty sui diritti calpestati in Qatar che le lamentele di chi dovrà stare per 90 minuti senza una birra in mano.