La Cina cerca di mantenersi “super partes” nel conflitto ucraino. Da una parte avanza vaghe proposte di mediazione, dall'altra si attiene al proverbiale pragmatismo che dalla fine dell'epoca maoista contraddistingue la sua politica estera. Ma, mentre Xi mal tollera le intimidazioni di Putin, ugualmente teme il soffocante abbraccio di Washington
La Cina si oppone a una guerra nucleare. Negli ultimi giorni Xi Jinping lo ha dichiarato innumerevoli volte: prima al fianco del cancelliere tedesco, Olaf Scholz, poi incontrando per la prima volta Joe Biden alla vigilia del G20. Xi – che si è detto “estremamente preoccupato per l’attuale situazione in Ucraina” – ha definito la posizione cinese “chiara e coerente”: Pechino auspica un “cessate il fuoco, la fine della guerra e colloqui di pace”. Non è un mistero che nei palazzi del potere in piazza Tian’anmen serpeggino malumori per il protrarsi di un conflitto che coinvolge trasversalmente la Cina, legata a Vladimir Putin da un’”amicizia senza limiti”. La questione è tornata alla ribalta soprattutto dopo le indiscrezioni del Wall Street Journal e del Financial Times, secondo cui non solo il comportamento dello “zar russo” starebbe mettendo a disagio la Cina. Lo scorso febbraio, il capo del Cremlino avrebbe addirittura mentito a Xi Jinping sull’imminente inizio della guerra, mettendo a rischio la vita di migliaia di cittadini cinesi residenti in Ucraina.
Non è la prima volta che l’uomo forte di Pechino prende le distanze dall’”operazione militare speciale” di Mosca. Era già successo in occasione della Shanghai Cooperation Organization, in Uzbekistan, prima apparizione internazionale di Xi dall’inizio della pandemia. Il contesto ha la sua importanza: l’Asia centrale, satellite della Russia dalla disgregazione dell’Urss, ha negli ultimi mesi manifestato preoccupazione per gli sviluppi in Ucraina. Considerato che la Cina da anni spinge per ottenere maggiore influenza nella regione, per Xi sarebbe stato sconveniente non mostrare solidarietà nei confronti dei padroni di casa.
Lo stesso vale per il G20 di Bali. Pechino punta a sfruttare il capitale politico delle visite estere per validare la propria ascesa nel pantheon delle grandi potenze. Tanto più che, dopo circa tre anni di assenza dai forum multilaterali, la trasferta indonesiana di Xi ha coinciso con l’inizio di un controverso terzo mandato da segretario del PCC. La Cina, in cerca di legittimazione internazionale, sembra quindi considerare Putin un amico impresentabile da cui prendere le distanze in certe circostanze. Soprattutto dopo l’inaspettata perdita di Kherson. Una disfatta in Ucraina renderebbe lo “zar russo” totalmente inutile per gli scopi cinesi: a Pechino serve un partner carismatico con cui affrontare a muso duro l’Occidente. Non un guerriero sconfitto e umiliato.
Siamo quindi di fronte a una svolta? Probabilmente no. Non solo è poco realistico immaginare che Xi faccia pubblicamente dietrofront dopo aver mantenuto il punto per mesi – la “mianzi” (la faccia) è tutto in Cina. Pechino sembra piuttosto voler tenere fede alla consueta “ambiguità strategica”. All’inizio della guerra l’ambasciatore cinese a Washington, Qin Gang, ha chiarito che l”amicizia senza limiti” con Putin è in realtà perimetrata dai “principi della Carta delle Nazioni Unite, dalle norme fondamentali del diritto internazionale e delle relazioni internazionali”. Quelle stesse regole che legano Pechino a Kiev. Secondo il Trattato sull’amicizia e la cooperazione Cina-Ucraina e la Dichiarazione congiunta sull’approfondimento del partenariato strategico (2013), il governo cinese “riafferma il suo impegno incondizionato a non minacciare o utilizzare mai armi nucleari contro l’Ucraina” nonché “a fornire garanzie di sicurezza corrispondenti qualora il paese subisse, o fosse minacciato, da un’aggressione con armi nucleari”. L’ultima cosa che la Cina vuole è quindi ritrovarsi coinvolta nel conflitto.
Ma, mentre Xi mal tollera le intimidazioni di Putin, ugualmente teme il soffocante abbraccio di Washington. Così, pur continuando a sostenere “la sovranità di tutti i paesi”, Pechino fin dall’inizio ha condiviso l’apprensione della Russia per le manovre della NATO nell’Europa centro-orientale che per un gioco di specchi ricordano l’attivismo militare a guida americana nell’Indo-Pacifico. In apertura al G20 il presidente cinese ha strigliato Mosca dichiarando che “i problemi alimentari ed energetici non dovrebbero essere politicizzati, strumentalizzati e usati come arma”. Ma poco dopo ha anche aggiunto che “le sanzioni unilaterali e le limitazioni relative alla cooperazione tecnologica dovrebbero essere eliminate”. Chiaro riferimento alle ritorsioni occidentali contro la Russia e alla tech war sferrata da Biden con l’introduzione di nuove restrizioni sulle forniture di semiconduttori avanzati alla Cina.
Sempre in cerca di un equilibrio diplomatico, dopo aver posato davanti ai flash con Biden e criticato la retorica nucleare di Putin, Xi ha poi voluto rinfrancare Mosca: è così che – secondo il Washington Post – va inteso il pressing della Cina per rimuovere la parola “war” dal comunicato finale del G20. La formula accordata all’unanimità prende atto che “la maggior parte dei membri” – non tutti – “condanna la guerra”.
Ripartendo equamente le accuse, il gigante asiatico cerca di mantenersi “super partes”. Da una parte avanza vaghe proposte di mediazione. Dall’altra si attiene al proverbiale pragmatismo che dalla fine dell’epoca maoista contraddistingue la politica estera cinese: secondo Pechino, il perseguimento degli interessi trascende vincoli ideologici e alleanze. Questo permette al gigante asiatico di apparire “filo-russo” solo quando gli conviene. “La Cina è pronta a collaborare con la Russia per perseguire un approccio ben coordinato negli scambi ad alto livello e in vari campi, per approfondire la cooperazione pragmatica e facilitare gli scambi personali”, ha dichiarato il ministro degli Esteri, Wang Yi, incontrando Sergey Lavrov a Bali.
Il fatto è che il gigante asiatico considera Mosca una preziosa sponda per respingere l’accerchiamento statunitense. Per questo saranno proprio le mosse di Washington a incidere su un possibile distanziamento di Pechino. Il meeting con Biden è servito ad allentare la tensione tra le due sponde del Pacifico. Soprattutto nello Stretto di Taiwan. Ma le sanzioni americane contro i colossi tecnologici cinesi sono ancora là, e la rimonta dei repubblicani alla Camera lascia presagire tempi difficili all’orizzonte.
Pechino guarda già alle presidenziali Usa del 2024. Allora Xi sarà ancora saldo al comando. Potenzialmente sine die. Nello Studio Ovale invece, chissà. Potrebbe arrivare un altro Trump. Quello vero ha appena annunciato la propria candidatura con un’agenda sinocentrica che, in caso di vittoria, minaccia nuove tariffe commerciali. Senza assicurazioni concrete da parte americana, è improbabile che la Cina rischierà di compromettere i rapporti con gli amici del Cremlino. Sono soltanto supposizioni, certo. Ma ad oggi la posizione cinese è rimasta davvero “chiara e coerente”: dall’inizio della guerra Xi ha sentito e incontrato Putin in più occasioni. Zelensky mai.