Gli organizzatori lo hanno ripetuto ogni volta che ne hanno avuto la possibilità. E sempre con insistito orgoglio. La Coppa del Mondo in Qatar sarà la prima “carbon neutral”. Significa che i trenta giorni della competizione avranno un impatto sul clima “nullo o trascurabile”. Un traguardo storico che, secondo la Fifa, è stato raggiunto adattando le nuove tecnologie alle peculiarità del Paese ospitante. Gli impianti della competizione (otto), sono distanti al massimo 75 chilometri fra di loro. Questo vuol dire che per spostarsi da uno stadio all’altro i tifosi potranno sfruttare le linee della metropolitana locale, navette a basso consumo di carburante e bus elettrici senza essere costretti a prendere l’aereo. In più uno degli impianti tirati su dal nulla per ospitare la competizione, il 974 Stadium, è stato costruito impiegando container navali e può essere completamente smontato e riutilizzato altrove, oppure fornire componenti per piscine, centri sportivi, grandi magazzini. E ancora: è stato costruito un impianto fotovoltaico di oltre 10 chilometri quadrati che fornirà energia al Paese per la competizione ma anche per i decenni a venire, mentre nel bel mezzo del deserto è stato creato un enorme vivaio di alberi e tappeti erbosi che dovrebbe assorbire le emissioni di CO2 nell’area.

Si tratta di un progetto imponente e ambizioso che indica una rotta nuova nella lotta al cambiamento climatico. O forse no. Perché se il comitato organizzatore ha parlato apertamente di successo, diverse organizzazioni ambientaliste hanno sottolineato le proprie perplessità. Secondo alcune stime, infatti, la Coppa del Mondo in Qatar produrrebbe comunque 3.6 milioni di tonnellate di biossido di carbonio. Ossia quasi il doppio rispetto ai Mondiali russi del 2018 (2 milioni di tonnellate) e otto volte in più rispetto a Euro 2020 (450mila). È un problema serio, soprattutto se si pensa che, secondo le stime dell’ENEA, per riscaldare gli appartamenti di tutta Italia vengono prodotte 42 milioni di tonnellate l’anno (quindi 3.6 in media al mese). Significa che per trenta giorni una nazione come il Qatar, che conta circa due milioni e mezzo di abitanti, inquinerà quanto un Paese quasi 30 volte più grande. Numeri pesanti, che si innestano su una situazione già difficile. Il Qatar, infatti, è il primo Paese al mondo per emissioni inquinanti pro-capite (32 tonnellate metriche di anidride carbonica a testa nel 2021) e solo il 2% della sua energia viene da fonti rinnovabili.

Anche per questo qualcuno ha parlato apertamente di greenwashing, un termine piuttosto intuitivo che può essere tradotto come una “strategia di comunicazione o di marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo”. Nelle scorse settimane l’organizzazione Carbon Market Watch ha pubblicato un suo studio in cui l’idea di competizione “carbon neutral” viene smontata pezzo dopo pezzo. Secondo il report, infatti, l’impronta ambientale effettiva della Coppa del Mondo sarebbe almeno otto volte superiore a quella annunciata dalla Fifa. A far sballare la contabilità è il criterio di calcolo adottato dagli organizzatori. Anche perché, sostiene l’associazione ambientalista, “la valutazione dell’impronta di carbonio può avvenire soltanto al termine dell’evento e, quindi, pretendere la neutralità del carbonio prima che l’evento abbia luogo è prematuro e inattuabile”. Per capire il problema bisogna partire dalla definizione di “Carbon Neutral”, che indica una situazione in cui “le emissioni di CO2 antropocentriche sono bilanciate a livello globale dalle rimozioni di CO2 antropocentriche in un periodo specifico”.

Uno dei punti più delicati della questione riguarda le emissioni prodotte per la creazione delle infrastrutture necessarie a ospitare la competizione. Il punto è che una Nazione che prima dell’assegnazione della Coppa poteva contare su un solo grande stadio ne ha dovuti costruire altri sette (di cui altrimenti non avrebbe avuto necessità). Il rischio concreto, secondo Carbon Market Watch, è che alla fine del torneo questi impianti risultino o inutili o sovradimensionati, visto il seguito del calcio in quel quadrante geografico. Per esempio, il neonato stadio Al Janoub avrà una capacità di 20mila spettatori e sarà la sede dell’Al-Wakrah Sports Club, che prima giocava in un impianto da 12 mila spettatori. E non è esattamente facile stabilire se una squadra che non vince il campionato da 21 anni riuscirà davvero a incrementare il suo pubblico di quasi un terzo. Lo stesso discorso vale per lo Stadio da 20mila posti di Education City, che diventerà la casa della Nazionale femminile del Qatar. In pratica, per una piena efficienza dell’impianto, un movimento appena nato e che va avanti fra mille difficoltà dovrebbe calamitare un numero di spettatori vicino a quello dell’ultimo mondiale femminile.

Le esperienze degli ultimi Mondiali offrivano un monito piuttosto chiaro. Alcuni degli stadi costruiti per Russia 2018 non ospitavano grandi squadre e si sono rivelati non sostenibili per i club. Un impianto costruito in Amazzonia per Brasile 2014 non è usato frequentemente mentre un altro è diventato un parcheggio per gli autobus, senza contare che quelli realizzati per Sudafrica 2010 sono sottoutilizzati e rappresentano un problema per le finanze pubbliche. Il rischio che gli stadi del Qatar facciano la stessa fine è alto. E per costruirli è stata liberata nell’aria una notevole quantità di gas serra. Solo per edificare l’impianto smontabile sono state emesse 438mila tonnellate di CO2, ossia più del doppio dei gas inquinanti che sono stati necessari per costruire tutti gli altri sei stadi (206mila tonnellate). Un paradosso solo apparente. Perché agli impianti permanenti sarebbe stata attribuita un’impronta di carbonio calcolata non sui giorni effettivi del torneo, ma sul loro intero ciclo vitale, stimato in 60 anni (ma comunque incerto). Secondo le stime di Carbon Market Watch, invece, l’impatto effettivo per la costruzione degli stadi sarebbe di più di due milioni di tonnellate di CO2. È un conteggio comunque indicativo, perché non tiene conto delle attività di manutenzione e dal funzionamento degli impianti negli anni a venire. Senza dimenticare che le emissioni necessarie per smontare ed eventualmente spedire il 974 Stadium a 7mila chilometri di distanza, sarebbero addirittura superiore a quelle prodotte dalla costruzione di due stadi permanenti.

Ma non finisce qui. Perché l’altra grande perplessità riguarda l’utilizzo dell’acqua. Gli organizzatori hanno costruito un vivaio da oltre 425mila metri quadri che fornirà alberi ai parchi nei dintorni degli stadi e i prati per i campi da gioco e da allenamento. Questa “fabbrica” di erba è la più grande al mondo e si trova accanto a un grande impianto di trattamento delle acque reflue. Ma non è stato chiarito se questo utilizzo massiccio di acqua in una regione desertica possa avere effetti negativi sul fabbisogno quotidiano della popolazione. Anche l’idea che il verde possa fagocitare l’anidride carbonica non è propriamente esatta. La Carbon Market Watch afferma che per assorbire quella quantità di CO2 le piante avrebbero bisogno di centinaia di anni, mentre invece è difficile che alberi e prati possano rimanere in vita così a lungo, visto che sono stati collocati in aree verdi artificiali che richiedono un’intensa irrigazione. Per questo anche la sopravvivenza dei campi da gioco richiede uno forzo idrico enorme. Ogni metro quadrato di terreno richiede fino a 5 litri d’acqua al giorno. Significa che solo per innaffiare i prati degli stadi e dei campi d’allenamento il Qatar avrà bisogno quotidianamente di almeno 80mila litri d’acqua. Una quantità enorme per un Paese dove le fonti di acqua dolce sono prossime allo zero. Per questo l’emirato sta aumentando la sua opera di desalinizzazione, una pratica che ha dei costi pesantissimi sull’ambiente. La maggior parte degli impianti che converte l’acqua marina in acqua dolce è alimentata da petrolio o gas e solo l’Arabia Saudita (che rappresenta circa un quinto della produzione mondiale) può contare su 30 impianti che bruciano 300mila barili di greggio al giorno (ossia quanto 40mila italiani in un intero anno, in base ai dati di Confindustria energia).

Inoltre il processo di desalinizzazione rilascia in mare una sostanza di scarto altamente inquinante, fortemente salina, tossica e più calda dell’acqua marina. E le cose sono destinate a peggiorare, visto che nei prossimi cinque anni l’attività di desalinizzazione nell’area crescerà di un ulteriore 37%. Il quadro della Coppa del Mondo in Qatar, dunque, rischia di essere a tinte cupe. Anche perché alcuni elementi non sono stati tenuti in considerazione. I tifosi potranno anche spostarsi in metropolitana da uno stadio all’altro, ma dovranno comunque arrivare in Qatar. E gli aerei sono i mezzi di trasporto più inquinanti, con una media di 285 grammi di CO2 per passeggero a chilometro percorso (un’auto ne produce invece “solo” 48 per passeggero). Basti pensare che, con queste stime, un tifoso inglese diretto da Londra a Doha produrrà circa 1.8 tonnellate di CO2. Senza dimenticare che ogni stadio avrà un impianto di climatizzazione all’aperto il cui impatto energetico non è stato ancora chiarito e che la raccolta differenziata avrà un ruolo fondamentale, dato che secondo i dati dell’Unione Europea ogni tifoso, solo nel giorno della partita, produce in media un chilo di spazzatura. Gli sforzi degli organizzatori per ridurre l’inquinamento potrebbero non essere sufficienti. I mondiali non solo non saranno Carbon Neutral, ma genereranno una quantità di emissioni otto volte superiori a quelle prodotte in un anno dall’Islanda. E al di là di chi vincerà la Coppa, la sconfitta rischia di essere collettiva.

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