Per fare un bilancio del risultato ottenuto alla Cop 27 credo siano necessarie due riflessioni diverse: una sui passi in avanti effettivamente fatti in termini di lotta ai cambiamenti climatici, capacità di adattamento e di riparazione dei danni causati dai disastri; e l’altra, più diplomatica, su chi ci ha guadagnato o perso in termini di credibilità e risultati raggiunti per il proprio Paese.
Perché se vale il discorso che il pianeta è uno solo e che quello che accade in Pakistan riguarda anche l’Unione europea, gli Stati Uniti o l’Egitto, allora non possiamo prescindere da questi due diversi piani di analisi.
Un compromesso è stato raggiunto: la mitigazione è stata sacrificata sull’altare del fondo Loss and damage, che dovrà servire per pagare le perdite e i danni causati nei Paesi vulnerabili dai disastri provocati dai cambiamenti climatici. Credo sia lecita una valutazione dei pro e contro di questo epilogo, ma su un aspetto non può esserci trattativa: quello della libertà di pensiero, di parola, di protesta. Nessun risultato può far dimenticare che questa è la Cop dove qualcuno non ha potuto esprimere il proprio pensiero, raccontare la sua storia, condurre le proprie battaglie. Oppure ha dovuto farlo superando diversi ostacoli e facendo appello alla comunità internazionale.
Fatta questa premessa, il risultato raggiunto è storico, anche se tutto da scrivere. Certo, alla Cop 26 di Glasgow era chiaro come il sole che non si potesse andare avanti senza discutere seriamente del fondo Loss and damage, ma non era affatto scontato che quest’anno fosse quello giusto, soprattutto considerando la situazione geopolitica. Ma questo è stato anche l’anno del disastro in Pakistan. Nel 2021, invece, c’è stata l’alluvione in Germania e Belgio. Solo per citare qualche esempio.
Il tema è stato inserito in agenda ed è stata una scelta (per usare un eufemismo) vincente. Perché se ne è parlato come mai prima, mettendo sul tavolo tutte le opzioni. Certo, hanno provato a fermare l’ondata, anche con l’improbabile alternativa del Global Shield (Scudo globale), programma importante nato quest’anno sotto presidenza tedesca del G7, ma che garantiva solo un rafforzamento dei regimi di assicurazione. In pratica, prestiti e non finanziamenti a fondo perduto. Anche il presidente Usa, Joe Biden, appena giunto alla Cop, aveva dato il suo appoggio al Global Shield, senza citare il fondo Loss and damage.
Ma i Paesi in via di sviluppo hanno puntato i piedi, memori di come era finita a Glasgow, dove l’Unione europea e gli Stati Uniti avevano rifiutato l’istituzione del fondo, rinviandola a non prima del 2024.
A dare un colpetto nella giusta direzione è stata la proposta dell’Unione europea, che poneva però diverse condizioni: sui Paesi donatori (che dovevano includere la Cina), sui Paesi destinatari (dai quali la Cina e i paesi produttori di combustibili dovevano essere esclusi) e sugli obiettivi di mitigazione da migliorare. Sui primi due fronti la discussione è stata rinviata al prossimo anno. A una Commissione ad hoc il difficile compito di risolvere il dilemma che ha bloccato il fondo per decenni, facendo in modo che il Loss and damage non diventi una sconfitta per nessuno.
Il terzo punto (quello sulla mitigazione e, dunque, su obiettivi climatici dei singoli paesi e combustibili fossili) è stato completamente disatteso, come ha fatto notare alla fine il vicepresidente della Commissione Ue, Frans Timmermans. Così, l’Egitto non solo sarà ricordato dai Paesi vulnerabili per la Cop del Loss and damage, ma è anche riuscito a ‘proteggere’ i petro-Stati.
Ne è valsa la pena? Credo che, comunque, non si potesse far saltare il tavolo. Ne sarà valsa la pena a tre condizioni. Che il fondo Loss and Damage serva davvero ad aiutare i Paesi più poveri e vulnerabili, evitando quella divisione del mondo (tra Nord e Sud, ricchi e poveri, intoccabili e sacrificabili) che purtroppo si era delineata a Glasgow.
La seconda condizione non può che riguardare la mitigazione: ergo, la riduzione delle emissioni e l’addio ai combustibili fossili. Questa volta è andata così e, data la situazione, certamente non ha fatto comodo solo all’Egitto, all’Arabia Saudita o alla Russia. Basti pensare alle ultime scelte fatte da alcuni paesi europei, Italia compresa, in seguito all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Forse sarebbe comunque finita così, ma senza neppure il fondo. E sarebbe stata una sconfitta indicibile. Ma la prossima volta, alla Cop 28 del 2023, a Dubai, dovrà andare diversamente. Verrà proposto lo stesso compromesso. Perché la Cina non accetterà di uscire dal gruppo dei paesi destinatari del Loss and damage (ammesso che si disegni uno strumento forte) senza chiedere nulla in cambio. Non lo faranno neppure tutti gli altri. Ma per non trasformare un risultato storico in una guerra tra pochi, dovranno necessariamente cedere il passo. E la merce di scambio, tra dodici mesi, saranno sempre i combustibili. L’unica possibilità è nelle alternative. Nelle rinnovabili, nei nuovi progetti si elettrificazione, una collaborazione con i Paesi del Nord del mondo che non comporti il fare incetta di materie prime da Africa e Asia.
La terza condizione è che non si arrivi a Dubai convinti che si possa condurre una Cop senza contraddittorio e che ottenere vantaggi per il proprio Paese o per altri basti a farlo dimenticare. Sulla libertà non si tratta.