Un gesto per esprimere dissenso contro il regime e supporto alle rivolte prima della sfida d’esordio con l’Inghilterra. Un comportamento inatteso, perché nonostante i precedenti, nelle settimane di avvicinamento al Qatar la squadra aveva anche incontrato il presidente Raisi. E lo spogliatoio era apparso spaccato
La nazionale dell’Iran non ha cantato in campo l’inno nazionale prima della sfida d’esordio con l’Inghilterra al Mondiale in Qatar. Un gesto per esprimere dissenso contro il regime e supporto alle rivolte in atto nel paese per i diritti delle donne. Dagli spalti sono arrivati i fischi dei tifosi iraniani. Un gesto di sostegno alle proteste che non era per nulla scontato, nonostante i precedenti. Soprattutto per quanto è successo nelle settimane di avvicinamento alla Coppa del Mondo.
Si dice che una Nazionale giochi al calcio seguendo l’umore del suo Paese. Ma se davvero fosse così, il Mondiale dell’Iran rischia di essere infinitamente triste. Perché il Team Melli si porta dietro le scorie di tre mesi di terrore. La situazione è precipitata a metà settembre, quando si è diffusa la notizia della morte in carcere di Mahsa Amini, la ragazza di 22 anni che era stata arrestata dalla polizia morale per aver violato il rigido codice di abbigliamento islamico. Indossava il velo in maniera non corretta. E per questo meritava di essere imprigionata. Il giorno dei suoi funerali, il 17 settembre, è partita una lunga protesta che col passare delle settimane è costantemente aumentata di intensità. Così come la repressione. Secondo le ong locali, infatti, le vittime fra i manifestanti sarebbero 342, fra cui una quarantina di minori, mentre per l’Onu ha parlato di circa 14mila persone arrestate. E le cose potrebbero ancora peggiorare. Perché il parlamento ha votato una legge che condanna a morte chi si macchia di crimini contro lo Stato. Così un numero non ancora confermato di manifestanti è stato “giustiziato”.
Le tensioni che stanno facendo ribollire l’Iran hanno surriscaldato anche lo spogliatoio della squadra di Queiroz. Perché mentre alcuni calciatori hanno preso apertamente posizione contro il regime teocratico, altri hanno preferito stare zitti. A fine settembre la Nazionale ha giocato due amichevoli in Austria, contro Uruguay e Senegal. Dopo a vittoria per 1-0 sulla Celeste, Sardar Azmoun ha deciso di uscire allo scoperto. L’attaccante del Bayer Leverkusen ha pubblicato un post sul suo profilo Instagram. E ha scelto parole affilate: “Noi giocatori non possiamo esprimerci prima della fine di questo ritiro per via del regolamento interno della Nazionale, ma personalmente non sono più in grado di tollerare il silenzio. Possono anche escludermi dalla squadra: è un sacrificio che farei anche per una sola ciocca di capelli di una donna iraniana. Vergognatevi per la facilità con cui uccidete le persone. Lunga vita alle donne iraniane“. È un gesto che ha infuso coraggio. Al popolo iraniano, ma soprattutto ai suoi compagni. Mehdi Taremi, Vahid Amiri e Karim Ansarifard hanno voluto seguire l’esempio di Azmoun, rischiando così di venire estromessi dal Mondiale. Durante la sfida contro il Senegal, invece, la squadra ha deciso di indossare un giubbotto nero per coprire le maglie iraniane durante tutto l’inno nazionale. Soltanto qualche giorno più tardi è intervenuto sulla questione anche Alireza Jahanbakhsh, centrocampista del Feyenoord, che ha postato su Instagram la frase: “Siamo sempre dalla parte delle persone che al momento non chiedono altro che i loro diritti fondamentali“. Il suo ritardo nel prendere posizione era stato spiegato con l’assenza di internet nel ritiro austriaco dell’Iran, deciso in modo da tenere lontano il gruppo dagli avvenimenti che stavano sconvolgendo il Paese.
La situazione si è fatta sempre più intricata. Un mese più tardi un gruppo di calciatori e sportivi iraniani ha avanzato una richiesta ufficiale alla Fifa per escludere l’Iran dalla Coppa del Mondo. Il gruppo, i cui componenti sono rimasti anonimi, ha spiegato che “la brutalità dell’Iran nei confronti del suo stesso popolo ha raggiunto un punto critico, e questo impone una dissociazione inequivocabile e ferma dal mondo del calcio e dello sport”. Dopo neanche una settimana è arrivata la risposta del regime. E ha colpo alcuni sportivi di primo piano. Ali Daei, figura totemica del calcio iraniano (109 gol con la maglia del Team Melli), è stato arrestato in un albergo di Saqqez, la città dove era nata Masha Amini e dove si stava tenendo una imponente manifestazione di protesta, ed è stato portato via da una squadra speciale. Poco prima era toccato al difensore Hossein Mahini, incarcerato, e all’ex capitano dell’Iran Ali Karimi, ora residente a Dubai, raggiunto da un mandato di cattura internazionale. L’evento più tetro è andato in scena a inizio novembre. La Nazionale iraniana ha battuto il Brasile nella finale della Beach Soccer Intercontinental Cup. Un successo clamoroso che però non è stato festeggiato a dovere. Prima del fischio di inizio della partita la squadra non ha cantato l’inno nazionale, mentre al termine della gara i giocatori non hanno festeggiato la vittoria. Ma il gesto più clamoroso è arrivato dopo il gol di Saeed Piramoon, quando il giocatore ha esultato mimando il segno di tagliarsi i capelli, ormai simbolo delle proteste. Anche stavolta la risposta del regime è stata furiosa. Alcune fonti vicine all’opposizione hanno raccontato che subito dopo essere sbarcata all’aeroporto di Teheran la squadra è stata portata via da alcuni uomini in uniforme.
Da questo momento la storia ha preso una svolta incerta. Chi si aspettava una spaccatura completa fra squadra e regime è rimasto deluso. Perché poche ore prima della partenza per il Qatar i calciatori del Team Melli sono stati ricevuti dal presidente Ebrahim Raisi. Le foto che hanno iniziato a circolare nelle ore immediatamente successive mostravano i giocatori sorridenti e in un clima di grande cordialità con i vertici dello Stato. Le immagini sono state interpretate come un vero e proprio tradimento da parte dei giocatori, visti con diffidenza. Tanto che l’Iran International ha pubblicato una serie di articoli piuttosto critici sulla questione. “I giocatori del Team Melli hanno coperto lo stemma della nazionale quando hanno giocato del due amichevoli di settembre – ha scritto il sito – il che è stato interpretato come un segno di sostegno alle proteste, ma altre squadre nazionali e atleti sono stati più espliciti e diretti nell’espressione del loro dissenso”. Secondo la stampa, molti tifosi iraniani hanno iniziato a chiamare il Team Melli il Team Mullah, per sottolineare la mancata presa di distanza dal regime proprio nel momento più importante.
Ora che la squadra è arrivata in Qatar le continue domande dei cronisti hanno allargato la spaccatura all’interno dello spogliatoio. Se il secondo portiere Hossein Hosseini e l’attaccante Vahid Amiri hanno espresso solidarietà alle vittime, in molti sono andati in senso contrario. Durante una conferenza stampa un giornalista inglese ha domandato al ct Quieroz se fosse fiero di allenare una squadra che rappresenta un Paese che non assicura diritti alle donne. E il tecnico ha risposto con un secco: “Quanto mi paghi per rispondere alla domanda?”. Karim Ansarifard e Morteza Pouraliganji, invece, si sono rifiutati esprimere vicinanza alle donne iraniane, mentre Alireza Jahanbakhsh ha detto che queste domande distraggono la squadra che si sta concentrando in vista del Mondiale. E oggi, quando è partito l’inno, in Iran tutti aspettavano la reazione dei calciatori. Alla fine, nessuno ha cantato.