A 12 anni di distanza dall’assegnazione, negli stadi che non sarebbero mai stati costruiti senza lo sfruttamento estremo (in migliaia di casi fino alla morte) di centinaia di migliaia di lavoratori migranti, sono iniziati i Mondiali di calcio di Qatar 2022.
I lettori e le lettrici di questo blog hanno potuto seguire, di anno in anno, le denunce sui turni di lavoro massacranti, sugli stipendi trattenuti e mai versati, sugli alloggi sub-umani e su altre violazioni dei diritti umani subite dai lavoratori migranti.
Dopo sette anni di silenzio, nel 2017 le inchieste giornalistiche, le denunce delle organizzazioni per i diritti umani e le pressioni dei sindacati sull’Organizzazione internazionale del lavoro hanno costretto le autorità del Qatar ad avviare un piano di riforme: l’eliminazione dell’obbligo di chiedere l’autorizzazione del datore di lavoro per cambiare impiego, il salario minimo, l’istituzione di comitati per favorire l’accesso alla giustizia e per risolvere le controversie e l’approvazione di norme per proteggere i lavoratori dalle condizioni climatiche estreme.
Tre anni di attuazione insufficiente e poi, nel 2020, il processo di riforme si è interrotto. Lo sfruttamento del lavoro, che in non pochi casi costituisce vero e proprio lavoro forzato, continua a essere la regola e non l’eccezione e i datori di lavoro continuano a comportarsi in modo lesivo dei diritti e della dignità dei lavoratori.
Un’occasione persa, dunque. Dalla Fifa, che in un carteggio con Amnesty International del maggio 2022 ha sostenuto di aver voluto “usare la competizione come strumento per avviare un più ampio cambiamento sociale” in Qatar, e il cui presidente Infantino, nell’ultima conferenza stampa – intrisa di retorica, benaltrismo e “chi siamo noi per criticare gli altri” – non ha risposto alla richiesta dell’organizzazione per i diritti umani di istituire un fondo di risarcimento per i lavoratori migranti.
Ma un’occasione persa anche dallo stesso Qatar, che non ha saputo smentire che questa operazione sia stata, in definitiva, la quintessenza dello sportwashing.
Quando l’arbitro della finale avrà dato l’ultimo, triplice, fischio, quando sul terreno di gioco resteranno solo i coriandoli dei festeggiamenti, quando l’ultimo dei tifosi sarà rientrato a casa, alcuni lavoratori migranti torneranno nei loro stati di origine con niente in tasca.
Altri rimarranno nel Golfo per contribuire alla realizzazione di altri progetti scintillanti, come i campionati di calcio asiatici del 2023, sempre in Qatar e sempre senza diritti, o come i Giochi asiatici invernali del 2029 in Arabia Saudita.
Molti, come sappiamo, sono tornati da tempo a casa, ma in una bara.