Un Paese con una struttura sociale alquanto arcaica, dove i privilegi di circa 300mila abitanti ricchi per diritto di nascita si reggono sulle spalle di due milioni di lavoratori provenienti dal Sudest asiatico. Dalla 'kafala' ai turni infiniti: come ha funzionato il sistema che ha sfruttato milioni di lavoratori
Doha è un cantiere a cielo aperto. Il Mondiale non ha cambiato solo l’immagine internazionale del Paese, ma anche fisicamente lo skyline della sua capitale. Per il grande evento in Qatar hanno costruito gli stadi – otto in totale, quasi tutti tirati su da zero, modernissimi e ovviamente costosi, una spesa di oltre 6 miliardi di dollari in totale. E hanno rifatto anche ogni stazione, strada, persino le mattonelle dei marciapiedi che conducono al torneo. Un’impresa titanica, possibile solo grazie ad una disponibilità di manodopera infinita e a basso costo. I Mondiali del Qatar sono le piramidi moderne. Costruite col sudore dei nuovi schiavi.
2 MILIONI DI OPERAI PER 300MILA RESIDENTI QATARINI – In attesa delle partite sul campo, di Qatar ’22 si è parlato soprattutto per i diritti negati dei lavoratori impiegati nei cantieri della manifestazione (e non solo in quelli, ovviamente). Forse l’argomento di controversia maggiore, insieme alle discriminazioni nei confronti di donne e omosessuali. Fioccano appelli, dichiarazioni indignate, atti simbolici di protesta (come la maglia della Danimarca, bocciata dalla Fifa), ora che si avvicina il fischio di inizio e i lavori sono praticamente conclusi. Per capire appieno di che si parla bisogna inquadrare però la realtà dell’emirato, un Paese per certi versi unico, con una struttura sociale alquanto arcaica, dove i privilegi di circa 300mila abitanti qatarini ricchi per diritto di nascita si reggono sulle spalle di due milioni di lavoratori provenienti dal Sudest asiatico. India, Bangladesh, Nepal, Pakistan, gli operai arrivano quasi tutti da lì. Mentre il resto della popolazione, in totale 3 milioni di persone, sono professionisti stranieri, che portano le loro competenze pagate a peso d’oro e generalmente dopo qualche anno se ne tornano a casa. È un Paese in cui la schiavitù è stata abolita soltanto nel 1952 e si è poi trasformata in altre forme ufficiose: la famosa “kafala”, strumento in vigore fino a poco tempo fa, per cui il lavoratore straniero era legato per un periodo di tre anni al datore di lavoro che lo aveva fatto entrare nel Paese, finendo di fatto per essere una specie di sua proprietà privata. Quando nel 2010 il Mondiale fu assegnato al Qatar era del tutto evidente che i lavori necessari si sarebbero svolti sotto questo regime. Anche perché la Fifa non ha fatto quasi nulla, o comunque non abbastanza, per evitarlo.
LE CONDIZIONI DEGLI SCHIAVI MODERNI – Le conseguenze di aver portato la coppa a Doha sono evidenti, ma anche difficili da quantificare. Gli immigrati stranieri si sono moltiplicati, richiesti in misura sempre maggiore dalle compagnie. Lavorano per turni di circa 10 ore indifferentemente diurni o notturni, e il secondo è quasi una benedizione, visto che nelle ore del giorno le temperature possono raggiungere i 50 gradi al sole (ma di straordinari neanche a parlarne). Guadagnano una miseria: il salario minimo (aumentato solo nel 2021) è di 275 dollari al mese, che salgono di altri 200 con le indennità vitto e alloggio (su cui però quasi tutte le aziende risparmiano, provvedendo loro, a loro modo, ai bisogni degli impiegati). Vivono in enormi casermoni alle porte della città, in molti casi non sanno nemmeno dove, perché i pulmini della ditta li prelevano al mattino e li riportano alla sera. Nella maggior parte non stanno peggio delle condizioni da cui sono fuggiti in patria, anzi, riescono pure a mettere da parte un tesoretto da spedire a casa. E questo manda avanti la macchina di cui loro sono semplici ingranaggi: se uno si rompe, basta sostituirlo.
LA GUERRA SUI NUMERI DEI MORTI – Un’inchiesta del Guardian nel 2021 aveva stimato in 6.500 il numero di operai scomparsi nei lavori, cifra contestata dalle autorità locali perché si tratta del numero totale di immigrati morti in Qatar dal 2010 a oggi. Per il Comitato, i decessi sarebbero appena 3, ma sono solo quelli avvenuti fisicamente negli stadi, dove si lavora in condizioni di sicurezza mediamente migliori che in tanti cantieri italiani. Il problema è quello che succede fuori, dopo aver trascorso ore e ore sotto al sole, lavorato giorni e giorni senza riposo. I conti non tornano. Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty international, la percentuale di morti per arresto cardiaco o causa sconosciuta fra gli immigrati è decisamente superiore a quella dei morti di nazionalità qatarina (43% rispetto al 28%). Non è una prova (anche perché di autopsie ne sono state effettuate pochissime), ma un indizio su cosa è realmente successo in Qatar.
LE RIFORME INCOMPIUTE: LA VERA EREDITÀ DEL MONDIALE – Va detto anche che nel corso di questi anni tante cose sono cambiate in Qatar. La riforma della kafala, innanzitutto, che ora permette ai lavoratori di lasciare il Paese o cambiare impiego senza dover più chiedere il permesso: il governo ha dichiarato di aver approvato, dall’ottobre 2020, oltre 300mila richieste. L’introduzione del salario minimo, basso, ma è pur sempre qualcosa. L’estensione della fascia di protezione oraria (divieto di lavorare al sole dalle 10 alle 15.30 durante l’estate) e l’avvio di una serie di ispezioni: nell’ultimo anno sono state rilevate 230 violazioni, anche se le autorità non hanno specificato se il numero si riferisca a singoli lavoratori o aziende (in quest’ultimo caso riguarderebbe potenzialmente migliaia di persone). Forse proprio grazie ai Mondiali, oggi il Qatar è uno dei Paesi che in quell’area del mondo ha fatto più passi avanti sul piano dei diritti, ma resta ancora terribilmente indietro rispetto agli standard ritenuti accettabili in Occidente. Ed è innegabile che i lavori dell’evento si siano svolti proprio in quelle condizioni. Questa è la grande responsabilità della Fifa, a cui Amnesty ha chiesto di istituire un fondo di risarcimento di 440 milioni di dollari, pari almeno al premio stanziato per le nazionali. Più delle opere e degli stadi, di cui il Qatar non si farà quasi nulla, la vera eredità sarà fare sì che passata la festa dei Mondiali, non passi – come si dice – anche il santo: cioè che le riforme, su cui ancora ci sono ombre e profonde resistenze all’interno della società, vengano applicate per davvero e sia solo il primo passo nella conquista dei diritti. Allora, forse, Qatar 2022 sarà almeno servito a qualcosa.