Il rito pagano della Cop27 si è chiuso con una sentenza, insieme con l’affermazione di un principio di giustizia. Come ha scritto l’editorialista ambientale del Guardian, Damian Carrington, a Sharm el-Sheikh “è morto il sogno di contenere il riscaldamento entro un grado e mezzo”. Un verdetto definitivo. Negli ultimi trent’anni, dal Summit della Terra di Rio de Janeiro a oggi, le emissioni globali sono cresciute da 22 a 37 miliardi di tonnellate all’anno, un aumento superiore al 2 per cento annuo. E le emissioni pro-capite del terrestre medio, sempre che esista un terrestre siffatto, sono cresciute da 4,1 a 4,8 tonnellate di Co2 equivalente all’anno: più di quanto sono cresciuti i terrestri.
A fianco del presidente George Bush nel Summit c’era uno dei padri dell’idrologia statistica del ‘900, il professore Vujica Yevjevich della George Washington University. Secondo lui, l’umanità avrebbe iniziato a considerare l’impronta umana sulle emissioni di combustibili fossili solo davanti all’evidenza statistica di un cambiamento del clima. In fondo, il clima si definisce in base all’andamento “medio” e alla variabilità caratteristica di alcune variabili meteorologiche significative. Il professore si sbagliava: anche di fronte all’evidenza statistica l’umanità è pigra.
Nel 1992, ogni statunitense emetteva circa 20 tonnellate di Co2 equivalente all’anno, scese oggi a meno di 16. Un piccolo sforzo c’è stato, ma reso vano dall’incremento demografico del paese, da 257 a 331 milioni di abitanti. E le emissioni americane rimangono tuttora dell’ordine di 5 miliardi di tonnellate all’anno: da 5,11 a 5,26. Per contro, l’africano medio, ammesso che esista in carne e ossa, continua a emettere ogni anno una sola tonnellata di gas serra. Nel frattempo, gli africani sono raddoppiati, ma sono rimasti assai sobri in termini di emissioni clima-alteranti.
Trent’anni fa era concepibile che l’umanità cambiasse direzione? L’ottimismo prodotto dalla caduta del muro di Berlino ispirava fiducia, in previsione di un mondo multipolare, multietnico, pacifico. Invece, la ricerca costante della supremazia ha reclamato e continua a reclamare il controllo delle fonti energetiche e dei combustibili fossili. E passa per questa via anche la guerra continua con cui convive la Terra, dopo l’undici settembre 2001. L’ossessione per il controllo delle fonti e delle linee energetiche ha giocato un ruolo non secondario nelle sorti del mondo, dall’invasione afgana al conflitto ucraino.
L’adattamento rimane l’opzione più sensata di fronte al clima che cambia, in attesa che cada la convenienza dei combustibili fossili a favore di un paniere consistente di energie rinnovabili. In molti casi, parti della filiera fossile sono già in crisi da tempo, a fronte di rinnovabili sempre più convenienti e dei bassi prezzi di alcuni fornitori come la Russia, che taluni giudicano animata da una generosità troppo pelosa. Se l’aumento dei prezzi rianima la filiera, da un lato, dall’altro premia la convenienza delle rinnovabili. E possiamo prevedere una crescente confidenza della gente verso le rinnovabili inizialmente guardate con sospetto e diffidenza.
Se l’unica speranza di mitigazione risiede in un processo spontaneo di abbandono dei fossili, l’inerzia del clima fa escludere che questo processo possa limitare il riscaldamento globale in questo secolo. Le politiche di adattamento al cambiamento climatico sono le uniche in grado di limitare i danni e contenere la conflittualità climatica tra le diverse geografie del pianeta. Il principio del “loss and damage” stabilito dalla Cop27 è perciò sacrosanto. Il ristoro di perdite e danni del cambiamento climatico per chi lo subisce è un enorme passaggio culturale, non soltanto economico o finanziario. Anche se la ripartizione dell’onere è tuttora nebulosa, l’autodafé occidentale di Sharm el-Sheikh ha un significativo valore etico.
Secondo l’interpretazione corrente, il nuovo fondo per le perdite e i danni finanzierà la ricostruzione dei paesi più poveri e vulnerabili colpiti da gravi impatti climatici, che poco o nulla essi hanno causato. È un riconoscimento della responsabilità morale da parte dei grandi inquinatori nei confronti della sfida climatica. L’interpretazione in termini di puro ristoro è però riduttiva. Non si tratta solo di ristorare e riparare, ma bisogna predisporre anche politiche di adattamento in grado di diminuire l’esposizione e la vulnerabilità.
La lotta ultrasecolare dell’Italia in tema di difesa de suolo e catastrofi idrogeologiche porge una lezione valida anche in ambito più ampio di rischio climatico. Finora, lo Stato italiano ha riparato strade, ponti e ferrovie; costruito muraglioni e argini dove il fiume era esondato o si erano mosse le frane; ristorato talora gli alluvionati più illustri favorendo la ricostruzione tal quale. Il danno alluvionale, negli ultimi 150 anni, non è diminuito, ma aumentato vertiginosamente perché si è agito esclusivamente sulla pericolosità. Le azioni di adattamento devono, invece, prevedere e provvedere a ridurre l’esposizione e la vulnerabilità climatica. Altrimenti, la spirale del ristoro potrebbe diventare presto insostenibile.
Il circo della Cop si è dato appuntamento a Dubai per celebrare il 28esimo episodio. E per stabilire come applicare il principio di “loss and damage”. Se l’accordo su questo fondo è un primo passo verso la giustizia climatica, le chiavi di volta sono chi e quanto è in debito climatico, chi e come riempirà il fondo, chi e come potrà usufruirne. Capiremo allora se la relazione tra paesi cosiddetti sviluppati e paesi in via di sviluppo si è davvero avviata lungo un percorso più giusto diverso da quelli battuti dagli imperi del passato colonialista e del presente finanzcapitalista. Gli Emirati Arabi Uniti hanno fatto uno sforzo per ridurre le loro emissioni negli ultimi cinque anni, da quasi 24 a poco più di 15 tonnellate pro-capite all’anno. È uno dei paesi più virtuosi nello sforzo di riduzione delle emissioni, ma tuttora a un livello 15 volte maggiore di quello africano. Un buon segno, ma non basta.