Ai Mondiali di Qatar 2022 ilfattoquotidiano.it tifa Marocco: le ragioni della nostra proposta (leggi). Oltre al grande apprezzamento per questa iniziativa, alcuni lettori hanno evidenziato come il Marocco non sia uno Stato da prendere ad esempio sul tema dei diritti umani, sottolineando in particolar modo la questione Sahel e la violenta oppressione del popolo Saharawi. Non pensavamo fosse necessario, ma alla luce di ciò vogliamo qui specificare che il nostro sostegno riguarda esclusivamente la nazionale di calcio del Marocco, non di certo i suoi governanti. Un conto è tifare una squadra, cosa diversa è sostenere uno Stato che organizza una competizione, come il Qatar. Non a caso abbiamo scritto che si tratta di un gesto di “pura ribellione calcistica”. Abbiamo anche spiegato che, oltre a tifare Marocco, vogliamo cogliere l’occasione per svolgere un servizio giornalistico diverso dagli altri: per questo motivo abbiamo in preparazione diversi articoli, uno di questi lo potete leggere qui di seguito e ha l’obiettivo di raccontare a più persone possibili la storia dei diritti negati al popolo saharawi.

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Il preambolo della Costituzione marocchina del 2011 descrive il regno nordafricano come uno stato “legato alla sua unità nazionale e alla sua integrità territoriale” la cui unità è “forgiata dalla convergenza delle sue componenti araboislamica, berbera (amazigh) e sahariana-hassanica”. Bene o male tutti hanno presente le prime due componenti etnico-linguistiche, quella araba e berbera, che insieme formano quasi il 99% della popolazione totale del Marocco. Giunge quindi spontanea una domanda: chi sono i sahariano-hassanici nominati nel testo costituzionale? I hassanici sono un gruppo linguistico che vive in Mauritania, nel Sahara Occidentale, nel sud del Marocco, nel deserto algerino, nel Senegal e nell’estremo settentrione del Mali e del Niger. Sono quasi cinque milioni e tra di loro ci sono anche i saharawi (o sahariani), un gruppo etnico minoritario residente prevalentemente nelle zone del Sahara Occidentale di al-Saqiya al-Hamra’ (Canale Rosso) e del Wadi alDhahab (Fiume dell’Oro) che, già nel corso della dominazione spagnola di quei territori, avevano cominciato a reclamare la propra indipendenza. I sahariani-hassanici sono quindi un gruppo etnico-linguistico riconosciuto dalla costituzione del Marocco e considerati cittadini facenti parte, in tutto e per tutto, del suo tessuto nazionale. Se doveste infatti chiedere a un marocchino in quale anno il loro paese ha ottenuto l’indipendenza dalle potenze europee coloniali molti risponderanno 1956, ma altrettanti indicheranno il 1975. Il 1956 è effettivamente l’anno riconosciuto a livello nazionale ed internazionale quale data di indipendenza del regno da parte della Francia, ma il 1975 ha una valenza più simbolica nel determinare l’integrità territoriale e l’unità nazionale del Marocco stesso. Il 1975 è quindi una data spartiacque per le vite di tutti i marocchini.

Storia del conflitto tra Marocco e Polisario – Il 14 novembre scorso ricorreva il 47esimo anniversario degli accordi di Madrid, con i quali la Spagna ratificò, proprio nel 1975, la decolonizzazione del Sahara Occidentale, affidando la gestione provvisoria del territorio al Marocco e alla Mauritania. Prima di quella data però la Spagna aveva confermato il proprio impegno a rispettare l’autodeterminazione del popolo saharawi che risiedeva in quelle terre. Autodeterminazione, prospettata anche dalle Nazioni Unite con una ratifica nel 1966, che però non venne mai portata a termine. Sempre nel 1975, l’allora re Hassan II fece organizzare la cosiddetta “marcia verde” con cui 350mila marocchini entrarono nel Sahara Occidentale per porre le basi di una definitiva appropriazione dei territori sahariani occidentali. La Spagna ufficialmente lasciò il paese nel febbraio 1976 e il Marocco annesse così i due terzi settentrionali del Sahara occidentale e il resto del territorio nel 1979, in seguito al ritiro della Mauritania.

Un parere consultivo del 1975 della Corte internazionale di giustizia sullo status del Sahara occidentale sosteneva però che, sebbene alcune tribù della regione avessero legami storici con il Marocco, non erano sufficienti per stabilire “qualsiasi legame di sovranità territoriale” tra il Sahara occidentale e il Regno del Marocco, aprendo quindi le porte all’autodeterminazione delle popolazioni indigene di quei territori, i saharawi-hassanici. Il 27 febbraio 1976, il Fronte Polisario (Fronte di Liberazione Popolare di Saguia el Hamra e del Río de Oro), organizzazione fondata nel maggio 1973 come movimento nazionale per la liberazione del Sahara Occidentale e riconosciuto come tale anche dalle Nazioni Unite, proclamò formalmente la Repubblica Democratica Araba dei Sahrawi e istituì un governo in esilio, con il sostegno dell’Algeria, dando inizio a una guerriglia tra il Polisario e il Marocco, che continuò fino al cessate il fuoco del 1991. Nel 1979, le Nazioni Unite con la risoluzione 34/37 hanno invitato il Marocco a porre fine alla sua occupazione e hanno riconosciuto “il diritto inalienabile del popolo del Sahara occidentale all’autodeterminazione e all’indipendenza”.

La tregua venne incentivata e sostenuta dalle Nazioni Unite con la missione Minurso come parte di un piano internazionale il cui obiettivo principale era un referendum sull’autodeterminazione del popolo saharawi. Inizialmente previsto per il 1992, il referendum non ebbe però mai luogo a causa del conflitto su chi avesse diritto di voto, dato l’elevato numero di profughi saharawi e i contingenti di coloni marocchini insediatisi nel Sahara Occidentale. Il cessate il fuoco resse fino al 13 novembre 2020 quando ripresero le ostilità, infiammate poi anche dal fatto che, nel dicembre successivo, l’amministrazione statunitense di Donald Trump riconosceva la sovranità del Marocco sul Sahara Occidentale, unico Paese occidentale ad aver preso tale posizione, nell’ambito della normalizzazione dei rapporti diplomatici tra lo stesso Marocco e Israele. Ad oggi, l’amministrazione Biden ha mantenuto il riconoscimento della sovranità marocchina del Sahara occidentale e, nonostante il dichiarato impegno del presidente Usa a mettere in primo piano i diritti umani nella sua politica estera, l’amministrazione democratica non è riuscita a ritenere responsabile il governo marocchino dei crescenti abusi e delle repressioni documentati, tra gli altri, da Human Rights Watch e Amnesty International, contro i sahrawi.

I diritti negati del popolo saharawi – Secondo infatti Amnesty International, le autorità marocchine hanno fatto di tutto per reprimere brutalmente e illegalmente il dissenso degli attivisti saharawi e della società civile, con frequenti casi documentati di tortura, detenzione arbitraria, aggressioni e false accuse. In un report del 2021, l’ong internazionale ha documentato attacchi ad almeno 22 attivisti saharawi, giornalisti, attivisti dei diritti umani e minori da parte delle forze di sicurezza marocchine solo dal novembre 2020, in una crescente repressione dei diritti dei sahrawi. Sempre secondo Amnesty, le autorità marocchine continuano a detenere 19 attivisti saharawi condannati in processi di massa, ritenuti dall’organizzazione internazionale, gravemente iniqui. Otto sono stati condannati all’ergastolo e 11 a pene da 20 a 30 anni. Diversi detenuti hanno tenuto scioperi della fame, che hanno portato a un peggioramento della salute, per protestare contro le pessime condizioni carcerarie. Amnesty ha inoltre documentato l’utilizzo, nelle carceri marocchine, di torture, negazione di cure mediche urgenti e altri abusi – tutti in violazione del diritto internazionale – contro gli attivisti Abdeljalil Laaroussi, Mohamed Haddi, Sidi Abbahah e Bachir Khadda. Gli ultimi tre sono stati tenuti in isolamento per 23 ore al giorno per quattro anni.

“Esorto il governo del Marocco a cessare di prendere di mira gli attivisti per i diritti umani e i giornalisti per il loro lavoro e a creare un ambiente in cui possano svolgere tale lavoro senza timore di ritorsioni“, aveva invece sollecitato nel 2021 Mary Lawlor, relatrice speciale delle Nazioni Unite sugli attivisti per i diritti umani, spiegando che “non solo gli attivisti che lavorano su questioni relative ai diritti umani in Marocco e nel Sahara occidentale continuano a essere ingiustamente criminalizzati per le loro attività legittime, ma ricevono pene detentive sproporzionatamente lunghe e durante la detenzione sono sottoposti a trattamenti crudeli, inumani e degradanti e tortura”. Lawlor ha poi evidenziato il caso dell’attivista per i diritti umani Sultana Khaya e della sua famiglia, a cui dal novembre 2020 è stato impedito di lasciare la loro casa a El Aaiún. Khaya, presidente della Lega per la difesa dei diritti umani e la protezione delle risorse naturali a Boujdour, è stata più volte molestata dalle autorità marocchine e ha perso un occhio quando è stata aggredita da un agente di polizia nel 2007. Nello scorso anno, la polizia ha bloccato l’accesso alla sua casa, impedendo alla famiglia di uscire e minacciandoli ogni qualvolta volessero uscire. Nel maggio del 2021, la casa è stata poi perquisita dalle autorità marocchine due volte in 48 ore e, sempre secondo la relatrice speciale Onu, durante il secondo raid del 12 maggio, Sultana Khaya e sua sorella Luara, anche lei attivista, sono state aggredite sia fisicamente che sessualmente da agenti mascherati. Lawlor ha infine espresso particolare preoccupazione per l’apparente uso della violenza e la minaccia di violenza per prevenire e ostacolare gli attivisti, soprattutto donne, nell’esercizio delle loro attività pacifiche per i diritti umani.

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