La reazione del presidente turco Recep Tayyip Erdogan all’attentato consumatosi il 13 novembre nella via dello shopping di Istanbul non si è fatta attendere. Sabato notte la Turchia ha lanciato una nuova operazione militare contro il nord della Siria e dell’Iraq, colpendo le Unità di Protezione del Popolo (Ypg) curdo–arabe e il Partito dei lavoratori curdi (Pkk). A finire nel mirino dei militari turchi sono state Kobane, Ain Issa, Tel Rifaat, Derik e Derbasiye, ma anche Sulaymaniyya, Qandil e Shengal, contro cui l’aviazione ha sganciato le sue bombe. Il fuoco è stato particolarmente intenso su Kobane e Derik, colpite per diverse ore durante la notte e poi di nuovo durante la mattina.
Kobane d’altronde è la città simbolo della resistenza curda all’Isis ed è da tempo uno degli obiettivi del presidente Erdogan, che punta ad allargare la zona cuscinetto sotto il controllo del suo esercito o delle milizie di stampo jihadista a lui vicine e attive in Siria. In quest’area, la Turchia vorrebbe ricollocare almeno un milione di rifugiati, verso cui la popolazione è sempre più ostile e che costituiscono un problema per il successo elettorale del partito del presidente.
L’operazione lanciata tra sabato e domenica però potrebbe essere solo l’inizio di una più lunga campagna contro la Siria del nord ed eventualmente anche contro l’Iraq, su cui gravano anche gli attacchi dell’Iran. Il presidente Erdogan ha infatti dichiarato che la Turchia sta valutando la possibilità di condurre un’operazione di terra in Siria e nel nord dell’Iraq per colpire ancora più duramente i “terroristi” curdi, indicati quali responsabili dell’attentato a Istanbul.
La ricostruzione ufficiale dell’attentato, però, è sempre più debole, come spiega Francesco Strazzari, politologo e professore di relazioni internazionali presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. “Sono emersi diversi particolari che mettono in discussione quanto affermato meno di 24 ore dopo l’esplosione dal ministro dell’Interno Soylu, a partire dal fatto che la responsabile sarebbe una siriana militante per un gruppo curdo che pianificava da tempo l’attacco e che dopo averlo compiuto è tranquillamente tornata a casa”. Ma non è tutto. A far sorgere dei dubbi è anche il presunto coinvolgimento del Partito dell’unione democratica (Pyd), che non ha mai rivendicato l’esplosione a Istanbul né condotto in passato attacchi contro la Turchia, anche dietro pressione statunitense. Senza contare i presunti collegamenti tra l’attentatrice e un esponente del partito nazionalista turco, alleato di Erdogan.
“Sulla stampa turca si parla di intercettazioni di telefonate che la donna avrebbe fatto con un deputato dell’Mhp, alleato di governo di Erdogan. Il diretto interessato ha liquidato la questione parlando di un furto di identità”, spiega ancora Strazzari. “La stessa messa in scena delle foto in cui la presunta responsabile indossa la felpa con la scritta New York e che suggerisce una responsabilità americana non torna”. A pesare sulla ricostruzione della vicenda è anche il clima di silenzio da parte dei media e dell’opposizione in Parlamento, a cui non è permesso fare domande su quanto accaduto né sull’andamento delle indagini, circondate da un alone di mistero.
Ciò che è certo, invece, è che l’attentato a Istanbul fa il gioco del presidente turco tanto sul piano interno quanto su quello internazionale. “La stagione di violenza e la lotta al terrorismo rafforzano Erdogan nel momento in cui è incalzato dal partito kemalista (il Chp). L’attacco inoltre arriva poco dopo l’apertura dell’Akp al dialogo con il partito filo-turco Hdp con l’obiettivo ultimo di sottrarre voti all’opposizione. Un dialogo che aveva sorprendentemente ricevuto la benedizione dei nazionalisti, da sempre ostili nei confronti dell’Hdp. Questi forti cambi tattici hanno destabilizzato il quadro politico turco”, continua Strazzari.
L’attentato offre quindi a Erdogan l’occasione di usare il terrorismo per cementare il voto urbano in vista delle prossime elezioni, ma anche per legittimare una nuova offensiva militare, che arriverebbe dopo un crescendo di attacchi contro le aree in cui i curdi esercitano delle forme di autogoverno. “Giocando la carta dell’antiterrorismo e del protagonismo internazionale rispetto alla guerra in Ucraina, Erdogan punta a riguadagnare quei punti che gli servono per superare gli effetti negativi della crisi politico-economica che sta attraversando la Turchia”, spiega il professor Strazzari. E a portare avanti i propri interessi a livello internazionale, dimostrando la propria rilevanza anche al di fuori dei confini nazionali. Non è un caso infatti che l’attacco contro il nord della Siria sia avvenuto senza previa consultazione con la Russia e gli Usa, entrambi attori attivi nel paese e in particolare nelle aree interessate dai bombardamenti. “La Turchia in questo modo rivendica che quando si tratta di antiterrorismo non ha bisogno dell’autorizzazione di nessuno, anche nel caso di operazioni che si svolgono al di fuori dei suoi confini“, specifica Strazzari.
D’altronde nel lanciare questi ultimi bombardamenti il ministro dell’Interno ha citato il diritto della Turchia all’autodifesa ai sensi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite e ha dichiarato che l’operazione si è diretta contro aree “utilizzate come base dai terroristi per i loro attacchi al nostro paese” con l’obiettivo ultimo di prevenire gli attacchi e rendere sicuro il suo confine meridionale. Una narrazione che contrasta con quella del Pkk e del Pyd e che rischia di imporre un nuovo stop ai negoziati per l’acquisto degli F-16 in corso con gli Usa, contro cui si sono già espressi diversi senatori, sia Dem che Repubblicani. Il gioco a cui Erdogan sta giocando in Siria e in Iraq si fa sempre più pericoloso, ma il presidente sembra intenzionato a tutto pur di non perdere il potere.