Ripubblichiamo l'intervista uscita su FQ MillenniuM n. 62. Ordinaria all’Università Federico II di Napoli, Enrica Morlicchio ha appena pubblicato per il Mulino (con Chiara Saraceno e David Benassi) il saggio La povertà in Italia. "Un amico dentista mi ha raccontato che chi paga con la tessera si vergogna, ma almeno vuol dire che il Reddito consente di curare i denti dei figli a chi magari prima non poteva. E ho studenti che grazie a questa entrata in famiglia hanno potuto continuare l’università"
Quando Enrica Morlicchio, una quindicina d’anni fa, come sociologa ha deciso di specializzarsi nella ricerca sulla povertà e sulle disuguaglianze, un collega le disse con sufficienza che stava prendendo una cantonata, dato che i poveri in questa parte di mondo non esistevano più. Oggi invece il lavoro non le manca. È professoressa ordinaria all’Università Federico II di Napoli e per Il Mulino ha appena pubblicato, insieme a Chiara Saraceno e David Benassi, il saggio La povertà in Italia, ricco di numeri e analisi. «Oggi i soggetti a maggior rischio di povertà nel nostro Paese sono i minori», denuncia dati alla mano. Tema guarda caso scomparso dal dibattito sul Reddito di cittadinanza, forse perché a loro non si può rinfacciare il “divano”. Conversando con lei si capisce come quei politici che si vantano di essere “competenti” spesso sostengono, dichiarano e twittano il contrario di quello che dimostrano i dati e gli studi scientifici.
Esiste un discorso d’odio verso i poveri?
Siamo entrati in una fase di crescente disprezzo, che oggi ha un carattere nuovo per l’aumento della disuguaglianza. Se pensiamo a una corsa ciclistica, dalla crisi del 2008 alla pandemia i corridori in testa hanno spiccato il volo perché magari avevano bici tecnologicamente più avanzate, o il supporto dai gregari, o hanno assunto comportamenti sportivi scorretti. Il gruppone centrale del ceto medio ha rallentato e si è avvicinato agli ultimi. Ma gli ultimi hanno perso totalmente contatto, non si sa neppure dove sono, né se arriveranno al traguardo. La distanza si è fatta incommensurabile.
Non li vediamo più.
Come dimostrano gli studi in materia, il disprezzo cresce perché la coesione sociale non è più un obiettivo politicamente perseguito. Vediamo immagini di favelas accanto a grattacieli di lusso, ma chi vive nel grattacielo ignora completamente la vita quotidiana di chi abita nella favela. Non c’è bisogno di andare dall’altra parte del mondo, ho visto qualcosa di simile anche ad Atene. Direi più indifferenza e disgusto, piuttosto che disprezzo.
A proposito, ma la parola “povero” si può usare di nuovo? Ci siamo abituati a dire “meno abbienti”, “meno fortunati”, “ultimi”…
Dobbiamo assolutamente usare il termine povertà. “Ultimi”, “sfortunati”… hanno una connotazione morale. Invece la povertà è una condizione definita sulla base di statistiche accettate a livello nazionale, europeo e mondiale. È povero chi ha un reddito e un patrimonio sotto una certa soglia. Come potremmo calcolare l’incidenza degli “sfortunati”? Per un lungo periodo si è pensato che nei Paesi occidentali la povertà assoluta fosse stata sradicata, ma la crisi del 2008 l’ha riportata all’attenzione.
Nel vostro libro parlate di “poveri meritevoli” e “poveri non meritevoli”. Che cosa intendete?
Che tipo di povero merita l’assistenza? E quale no? La discussione nasce in Inghilterra con la New Poor Law del 1834. Meritevoli sono il bambino, la vedova coi figli, il disabile, l’anziano… insomma chi non può lavorare. Il non meritevole è il disoccupato. L’idea era che la disoccupazione dipendesse dalla singola persona e non dalle condizioni esterne.
Quasi due secoli dopo il dibattito sul Reddito di cittadinanza gira ancora lì intorno. E il governo Meloni ha riacceso la discussione sul merito.
Più che un ministero dell’Istruzione e merito, avrei preferito un ministero dell’Istruzione e della lotta alla dispersione scolastica. E poi come si misura il merito? Pensiamo a tutte le critiche che si attirano i test Invalsi per la valutazione del sistema scolastico. C’è il rischio che lo Stato convogli risorse su chi ha già le performance migliori. Don Milani scriveva: “Non c’è ingiustizia più grande che far parti uguali fra diseguali”.
Ci fa una fotografia del soggetto a maggiore rischio povertà oggi in Italia?
Senza nessuna incertezza: un minore. Nel 2008 i minorenni in povertà assoluta erano 375mila, nel 2021 un milione 400mila. Un milione in più, nella fascia 0-17 anni. Non possiamo certo dire che è colpa loro, è una povertà ereditata. Nel 2011 è avvenuto il “sorpasso” di minori e adulti, per incidenza di povertà relativa e assoluta, nei confronti degli anziani.
Che cosa significa materialmente essere “a rischio”?
Sono minori che vivono in famiglie con basse entrate da lavoro, in cui soffrono di deprivazioni materiali: in affanno con le bollette, in difficoltà con le medicine, nessuna vacanza… Ci sono reti familiari che sopravvivono con un patchwork di redditi e di prestazioni sociali, pubbliche e private.
Come funziona?
Faccio un esempio: tre nuclei familiari sotto lo stesso tetto che sopravvivono mettendo insieme la pensione dei più anziani, il lavoro modesto di un adulto, la madre che lavava le scale dei palazzi, qualche lavoretto in nero o da ambulante dei figli più grandi. Sono spezzoni di reddito da lavoro che da soli non assicurano il benessere, ma combinati con il welfare e i contributi del terzo settore aiutano a galleggiare. Ecco come mai nonostante tassi di povertà così elevati la situazione non esplode.
Che ne pensa del salario minimo?
Una qualche forma di regolamentazione dovrà arrivare, senza indebolire la contrattazione collettiva. Ma non basta, poiché il fenomeno dei working poor è causato non solo dai bassi salari ma anche dalla bassa intensità lavorativa familiare. Bisogna anche incrementare l’occupazione, soprattutto femminile: se il salario povero è l’unico che entra in famiglia, è un problema. La misura più efficace sarebbe un piano straordinario per l’occupazione dei giovani e delle donne con bassi titoli di studio.
Dal Covid in poi è scomparso il tema degli immigrati, che invece nelle statistiche sul rischio povertà incidono parecchio.
Concordo. Un terzo degli immigrati sono poveri: spesso sono famiglie con bambini, e sono quasi sempre esclusi dal Reddito di cittadinanza. Il Comitato scientifico guidato da Chiara Saraceno ha proposto di ridurre da dieci a cinque il requisito degli anni di residenza minima in Italia, contando che in altri Paesi europei per sussidi simili se ne richiedono solo due. La scelta, però, è stata politica, frutto dello scambio fra 5 Stelle e Lega.
Si è da poco insediato il governo più a destra del Dopoguerra. Che cosa si attende su questi temi?
Dai nomi dei ministeri e dei ministri non è che si prospetti nulla di buono. Giorgia Meloni rassicura l’Europa perché ha bisogno del Pnrr, ma è un lupo travestito da agnello. E rappresenta un blocco economico-sociale coeso. Ma almeno lei ha fatto la gavetta, mentre i meccanismi di selezione nel Pd sono diventati molto elitari, e questo ne ha indebolito la leadership.
Dopo la sconfitta, si è (ri)aperto il dibattito se il Pd debba sterzare verso la rappresentanza di chi ha meno. Lei è d’accordo?
Sì, la sinistra deve fare molta chiarezza. Le critiche più ingenerose e intrise di disprezzo verso i poveri sul Reddito di cittadinanza sono arrivate dal Pd o da ex Pd senza che si levassero voci a difesa. Molti poveri si sono sono sentiti abbandonati, e questo spiega in parte il successo del 5 Stelle al Sud. La questione cruciale è la rappresentanza dei non rappresentati. Ci sono due temi da affrontare: il Mezzogiorno e la criminalità organizzata. Chi non vive in questi territori non può capire lo sforzo di uscire dalla povertà da queste parti, lo sforzo di rifiutare l’aiuto della criminalità organizzata o di diventare sentinella, spacciatore.
Il Reddito di cittadinanza funziona? Se potesse modificare qualcosa, come interverrebbe?
Ci sono delle cose da correggere, molto ben indicate dal Comitato Saraceno. Per esempio, se il beneficiario trova un lavoro anche stagionale il guadagno viene conteggiato per intero, e questo è un disincentivo. Bisogna che Reddito di cittadinanza e redditi da lavoro possano cumularsi. Poi ridurrei il requisito dei dieci anni di residenza per gli immigrati. Rafforzerei anche i progetti utili alla collettività, già previsti, ma non tutti i comuni ne hanno dato attuazione.
E le famose politiche attive?
Va riorganizzato il sistema pubblico di avviamento al lavoro, i centri per l’impiego devono accompagnare i disoccupati in tutte le fasi fino al ricollocamento. Infine rivedrei le scale di equivalenza: ora il Reddito tende a privilegiare i nuclei familiari più piccoli, dato che il limite di 750 euro vale per tutti.
Lei vive a Napoli, una delle “Capitali” del reddito di cittadinanza. Che effetti concreti ha visto, anche come impressione personale, al di là dei numeri?
Un amico dentista mi ha raccontato che chi paga con la tessera si vergogna, ma almeno vuol dire che il Reddito consente di curare i denti dei figli a chi magari prima non poteva. E ho studenti che grazie a questa entrata in famiglia hanno potuto continuare l’università. Molte famiglie hanno migliorato l’alimentazione. Se si vedesse il Reddito di cittadinanza come investimento sociale e non solo come costo sarebbe già un bel passo avanti.
Lei vede il rischio che molte famiglie italiane piombino nella povertà nei prossimi mesi, per l’effetto di inflazione, costi energetici, onda lunga del Covid?
Sì, sicuramente, ci sarà un aumento generale e cominceranno a entrare in povertà famiglie del ceto medio. I penultimi, come oggi vengono chiamati.
Da FQ MillenniuM n. 62, novembre 2022