La “progresìa mediatica” (copyright de La Base, il podcast di Pablo Iglesias) di casa nostra, riunita nella “Stampubblica”, il mostro a due teste del gruppo Gedi-Exor, parla a una voce di “manovrina” (La Stampa) e di manovra “piccola piccola” (La Repubblica). A ruota gli esponenti del Pd, con un Majorino – fresco di candidatura alla Regione Lombardia – che guarda caso riprende esattamente il titolo di apertura del quotidiano diretto da Maurizio Molinari: una “manovra innanzitutto piccola piccola”.

Dietro i diminutivi pare di sentire quasi un respiro di sollievo. Quello espresso platealmente da Marcello Sorgi sulle colonne de La Stampa. Per lui Meloni “supera l’esame di maturità”. Quale? Aver sostanzialmente rispettato i vincoli europei e il tracciato segnato da Mario Draghi all’insegna del rigore fiscale e delle politiche di austerità.

Insomma, “progresìa mediatica” e centrosinistra sono sollevati perché il Governo Meloni sta seguendo le orme delle politiche economiche neoliberiste del Governo Draghi.

La destra mediatica non si limita all’elogio della bozza di Legge di Bilancio. Se il direttore di Libero Sallusti parla di “strada giusta” e il Tempo titola “Manovra per i più deboli”, i quotidiani delle destre sono infatti pieni di titoli e articoli che hanno un che di liberatorio, quanto meno per chi li ha scritti: “Buon lavoro fannulloni” (Libero), “Stop alla follia dei 5 Stelle” (Secolo d’Italia), “solo 8 mesi di paghetta” (Libero), “Otto mesi di prebenda, anziché dodici […] Ed è solo l’inizio” (ancora Libero). La destra mediatica, cioè, individua il punto cardine della manovra di bilancio – simbolico ma anche materiale, soprattutto in prospettiva – nel duro attacco al reddito di cittadinanza.

È qui la chiave di tutta la manovra. Non per i risparmi che questa stretta permetterà al governo. Parliamo, infatti, di circa 700 milioni di euro, tra l’altro cifra tutta da verificare. E nemmeno per la polemica politica contingente tra forze di governo e di opposizione. Ma per l’antropologia che soggiace a una tale riforma.

Disoccupazione e povertà non sono fenomeni sistemici da sconfiggere attraverso nuove politiche; si configurano, invece come “scelte” individuali di una massa di “fannulloni” (Libero). Restii a impegnarsi, allergici al sacrificio e desiderosi solo di un posto non in poltrona ma su un divano. 660mila percettori di reddito occupabili (e, chissà, forse anche i 173mila che già lavorano ma percepiscono stipendi così miseri che devono essere integrati con il RdC) vengono così segnati dal marchio dell’infamia, perché nemici della “nazione”, improduttivi, parassiti.

Bisogna dunque costringerli. E l’arma di costrizione è la fame – oltre che lo stigma. Senza alcun reddito saranno obbligati a cercare e soprattutto ad accettare qualunque lavoro, a qualunque condizione e in qualunque luogo. È una logica propria non solo del Governo Meloni, ma anche di politici come Renzi e di ampi pezzi del mondo imprenditoriale.

La categoria che si viene a creare è mobile e potrebbero ricaderci improvvisamente anche quei lavoratori che magari oggi puntano il dito contro i percettori, rei di parassitare sulle loro tasse: una fabbrica che chiude, un contratto che non viene rinnovato, una delocalizzazione, un licenziamento e – puff! – chiunque può ricadere nell’inferno di povertà e colpa.

Se la manovra è durissima contro il segmento più povero della popolazione, fa credere ai penultimi che per loro qualche briciola arriverà. Il taglio del cuneo fiscale, destinato interamente ai lavoratori – contro la proposta di Confindustria, un piccolo aumento delle pensioni minime e l’allargamento della soglia dei beneficiari del bonus bollette sono le misure che faranno entrare o risparmiare qualche euro a lavoratori e lavoratrici. Soldi tolti ai percettori di reddito, a chi ha una pensione di duemila euro lordi e per il quale non scatterà la rivalutazione al 75% sulla base dell’inflazione.

Anche qui, in termini economici si muove poco. Ma una manovra va analizzata pure per gli obiettivi politici che si pone. In questo caso le destre al Governo agiscono per dividere gli ultimi dai penultimi, affinché divenga difficile saldare un blocco sociale capace di costruire una prospettiva di riscatto per l’enorme maggioranza della popolazione. E per nascondere alla vista – e al dibattito mediatico – i veri vincitori. Quelli cioè di cui si parla meno.

Le grandi imprese dell’energia che saranno soggette a una tassazione degli extraprofitti fissata al minimo indicato dall’UE (33%). Quelle della logistica, farmaceutica e digitale (non facciamoci fregare dalla “Amazon Tax” che tutti va a colpire tranne che Jeff Bezos!) e che non pagheranno un euro in più, malgrado le entrate faraoniche degli ultimi anni. Le aziende che potranno godere di un credito d’imposta che sale al 35-45% e cui andrà circa il 70% dei 21 miliardi stanziati per far fronte per i primi tre mesi del 2023 al caro bollette. Chi potrà spendere 5.000€ cash in un singolo acquisto, chi si è già fatto venire l’acquolina alla bocca per condoni tombali e scudi penali che oggi non ci saranno, ma domani chissà…

Loro, “the untouchables”, sono quelli che vincono. Per tutti noialtri, il bastone.

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