Economia & Lobby

Stop al reddito di cittadinanza: l’ultima truffa linguistica dei politici di destra

I neuroscienziati americani che studiano il discorso pubblico ci spiegano che la mentalità di destra ha come modello politico di riferimento il “padre severo”, che insegna ai propri figli a curare esclusivamente i propri interessi e mirare al successo tenendosi lontani dai pietosi benefattori, che con i loro programmi sociali “immorali”, in quanto rendono le persone dipendenti dagli aiuti, mandano letteralmente a rotoli il sistema.

Dunque, la metafora del capitalismo fatta persona, con allegata gerarchia. Dio al di sopra dell’uomo, l’uomo al di sopra della natura, gli uomini al di sopra delle donne, i cristiani al di sopra dei non cristiani, i bianchi al di sopra dei non bianchi, gli eterosessuali al di sopra degli omosessuali, la cultura occidentale al di sopra di quelle non occidentali, il nostro Paese al di sopra di tutti gli altri. E – magari – la nostra cucina al di sopra di quelle altrui. Mentre a sinistra la figura in cui ci si identifica sarebbe quella del “genitore premuroso”, che coltiva la cura declinata in empatia, responsabilità, impegno a fare del proprio meglio verso tutti e tutto.

Probabile che a noi, disincantati eredi di una millenaria cultura, queste semplificazioni promosse dai bambinoni del nuovo mondo facciano sorridere. Eppure – a ben vedere – siamo ormai largamente influenzati dalle loro metodologie metaforiche ad uso linguistico con cui si raccoglie il consenso e si vincono le elezioni. Insomma, stiamo pericolosamente americanizzandoci recependo un modello di comunicazione politica (in elaborazione oltre Atlantico dalla fine del Settecento) che utilizza la mistificazione a tutto regime. Partendo da destra e contagiando la sinistra.

Prendiamo il caso lampante dell’americanista confindustrialese Carlo Calenda; ossia una mente semplice che riproduce pappagallescamente i luoghi comuni e i tic verbali dell’ambiente di provenienza. Costui, per descrivere se stesso e la sua “compagnia della misericordia” (di cui ora fa parte anche la sciura Moratti), usa prevalentemente l’aggettivo “moderati”. Voce che tende a indurre l’idea di responsabilità e buon senso: la giusta misura che rifugge da eccessi e incoscienza.

Insomma, una tipologia dell’apprezzabilità tanto in politica come nella vita dei tutti giorni elevata a modello ideale dell’affidabilità. Purtroppo il moderatismo è magari un tratto caratteriale (un po’ e un po’, so e ni) tendente al ponziopilatismo, ma non risulta una categoria distintiva nell’arena pubblica in cui prevalgono le alternative secche: o di qua o di là. E chi scantona probabilmente persegue l’obiettivo opportunistico di tenere il piede in due scarpe.

Insomma, chi si proclama moderato cerca di gettarci fumo negli occhi per agganciare il consenso destrorso legge e ordine. Operazione a cui gli spin doctor anglo-americani si dedicano con pervicacia degna di miglior causa da quando la destra repubblicana mise a punto la sua strategia per distruggere le realizzazioni progressiste in ambito Stato sociale. Prima con la falsa partenza del 1964 (candidatura di Barry Goldwater alla presidenza degli Stati Uniti); 15 anni dopo con il successo mondiale del duo di pedissequi interpreti della lezioncina NeoLib Reagan-Thatcher.

La via del successo in questa fase storica, largamente recepita anche dalle nostre parti dal tempo della discesa in campo di Silvio Berlusconi, che di questi ammennicoli comunicativi fece uso smodato per abbindolare una fascia consistente del corpo elettorale. Dal termine “giustizialista” per delegittimare i giudici che stavano facendogli le pulci, al discredito con cui sterilizzare ogni critica, liquidata come invidia, nei confronti di un monopolista che si pretendeva liberale e un riccone dalle origini misteriose.

E la faccenda continua. Oggi, se l’impresa privata si autopresenta come “creatrice di lavoro”, chi osa controbattere che il lavoratore “è creatore di profitto”? Chi si fa carico della difesa della scuola pubblica davanti al meccanismo diabolico dei voucher? Chi avrà il coraggio di contrastare i tagli al reddito di cittadinanza, irrisi con l’ignobile metafora dei “poltronisti”, in un Paese dove l’impoverimento dilaga?

Chi si farà promotore della bonifica di un linguaggio che colonizza le menti al servizio della reazione? C’è da disperare, quando perfino i notabili della sinistra ripetono l’orrida sentenza per cui pagare le tasse sarebbe “lasciarsi infilare le mani dello Stato nelle proprie tasche”.