La Junta Militar fece tutto il possibile, e anche l'impossibile, per festeggiare la vittoria della propria nazionale in casa al Mondiale'78. Premurandosi di muovere tutti i fili affinché il miglior arbitro del mondo non arbitrasse la finale. Come puntualmente avvenne
IL LATO OSCURO DEI MONDIALI – PUNTATA 7 – Rimet sognava un torneo che avrebbe “unito le nazioni, avvicinando i popoli e rendendo il mondo un solo grande paese”. Non è andata proprio così. Da Francia 1938 a Qatar 2022, la Coppa del Mondo è anche una storia di guerre, omicidi, imbrogli e regimi dittatoriali. Puntata dopo puntata, vi raccontiamo le storie emblematiche degli intrecci tra calcio e potere
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Argentina ’78 è difficile da inserire in una rubrica sul lato oscuro dei Mondiali, perché non si saprebbe nemmeno da che parte cominciare. I desaparecidos, l’ESMA, Jorge Rafael Videla, i 520 milioni di dollari spesi per organizzare la kermesse (quattro volte tanto il costo del Mondiale successivo, Spagna ’82), la stampa (“i nazisti avevano un Josef Goebbels, la Junta Militar invece migliaia”, ha scritto Pablo Llonto, autore del libro I Mondiali della Vergogna), la marmelada peruana. È opinione condivisa che la Junta Militar a capo dell’Argentina fece tutto il possibile, e anche l’impossibile, sia per mostrare al mondo un paese pacificato (Buenos Aires non era la Santiago de Cile di Pinochet, con i carri armati nelle strade e gli stadi pieni di prigionieri), sia per festeggiare la vittoria della propria nazionale, all’epoca l’unica delle big sudamericane ancora priva di una coppa del mondo in bacheca (il Brasile ne aveva tre, l’Uruguay due). In quest’ultimo caso, premurandosi di muovere tutti i fili affinché il miglior arbitro del mondo non arbitrasse la finale. Come puntualmente avvenne.
Negli anni Settanta Abraham Klein era uno degli arbitri più quotati tra gli addetti ai lavori. Aveva arbitrato al Mondiale messicano ma non in quello tedesco di quattro anni dopo perché, in quanto israeliano, rischiava di essere un bersaglio del terrorismo arabo. Era nato a Timisoara, città dalla quale era fuggito all’età di 13 anni per non finire ad Auschwitz, dove sarebbero stati uccisi molti membri della sua famiglia. Scappò in treno con altri 500 bambini e dopo tre settimane di viaggio raggiunse Apeldoorn, piccolo paese nella parte orientale dell’Olanda. “Non potrò mai dimenticare”, ha raccontato al Guardian, “l’esperienza di trovarsi in un paese straniero ma di sentirsi come a casa. Mi diedero tutto: cibo, educazione, sport. Fu qualcosa di incredibile”. Anni dopo, però, Apeldoorn fu anche la ragione alla quale si aggrappò la Federcalcio argentina per far pressione sulla Fifa affinché non gli fosse consentito di arbitrare la finale del Mondiale. Troppo di parte a favore degli olandesi, dissero.
Il concetto di arbitro di parte era qualcosa che gli argentini dovevano conoscere molto bene in quella coppa del mondo, visto cosa accadde prima di incrociare il fischietto di Klein. Al debutto della Selección contro l’Ungheria, l’arbitro spagnolo Garrido mostrò il cartellino rosso a due ungheresi ma non utilizzò lo stesso metro di giudizio con i padroni di casa. Giocatori come Passarella sembravano godere di impunità totale per qualsiasi intervento. Contro la Francia invece lo svizzero Dubach si inventò un rigore per l’Argentina e ne negò uno solare ai transalpini. L’ultima partita del girone, contro l’Italia di Bearzot, serviva quindi solo a decidere chi si sarebbe classificata al primo posto e, di conseguenza, non avrebbe dovuto lasciare Buenos Aires per spostarsi a Rosario. Chi si aspettava un nuovo arbitro zerbino nei confronti dell’Argentina non aveva però fatto i conti con Klein, che diresse il match in maniera impeccabile, rimanendo impassibile quando un giocatore dell’albiceleste cadde in area e i 76mila del Monumental ruggirono per chiedere il calcio di rigore. L’Italia vinse 1-0 grazie a un gol di Roberto Bettega. “Non ci fu niente di più impressionante in quel Mondiale”, scrisse l’inglese Brian Glanville, “di osservare il modo in cui Klein stava in piedi al centro del campo, in mezzo ai suoi assistenti, nel boato assordante di un intero stadio”.
Nel libro Ajax, la squadra del ghetto, Klein disse all’autore Simon Kuper che, per lui, in campo solo due cose erano importanti: la lealtà nei confronti delle squadre e il coraggio nel prendere le decisioni. “Penso che tutti gli arbitri siano leali. Non tutti, però, sono coraggiosi”. Dopo la partita gli consigliarono di non uscire perché la folla lo stava aspettando, ma lui disse di non avere paura, perché aveva fatto quello che un arbitro doveva fare. Non successe nulla. Il giorno dopo la stampa straniera ricoprì Klein di elogi. Il titolo migliore fu “Ganz gross, Herr Klein!”, liberamente traducibile come “Favoloso, Signor Klein!”, che però non rende l’idea del brillante gioco di parole compiuto accostando la parola gross, che in tedesco significa grande, con il cognome dell’arbitro, traducibile come Piccolo. Un arbitro piccolo di nome ma grande di fatto, che si confermò anche nella partita del girone di semifinale tra Germania Ovest e Austria, non propriamente due paesi amici. Fu Pelè uno dei primi a esprimere il pensiero di molti: la finale non poteva che essere affidata a Klein. Invece il comitato arbitrale, presieduto da Artemio Franchi, scelse Sergio Gonella, dirottando Klein sulla finale per il terzo posto tra Brasile e Italia.
Voetbal in een vuile oorlog (Calcio nella guerra sporca) è un libro, pubblicato solo in Olanda, interamente dedicato al Mondiale del ’78 e nel quale i giornalisti Iwan van Duren e Marcel Rozer hanno raccolto una nutrita schiera di testimonianze per ricostruire nella maniera più approfondita possibile l’evento. Un ex delegato Fifa, rimasto anonimo, ha raccontato di essere stato testimone delle pressioni esercitate dalla Federcalcio argentina sulla Fifa per non scegliere Klein. “Ha vissuto ad Apeldoorn ed è ebreo, quindi ha simpatie per gli olandesi”, è la frase che fu pronunciata. Anni dopo l’arbitro dichiarò invece al Guardian di ritenere improbabile che gli argentini o la Fifa sapessero dei suoi trascorsi in Olanda, perché lui non lo aveva mai riferito. “Reputo più probabile che io sia stato punito per la mia prestazione nella partita dell’Italia. L’Argentina pretendeva un altro arbitro. Rimasi deluso? Certamente. Mi sentivo perfettamente in grado di arbitrare la finale perché una volta sceso in campo per me contavano solo i ventidue giocatori. In seguito mi riferirono che alcuni membri del comitato arbitrale volevano il sottoscritto, ma non dirò mai una sola parola contro il comitato. Fui supportato per tutta la carriera. Non è facile trovare arbitri di piccoli paesi a cui sono state assegnate tante partite così importanti. Ho arbitrato sette volte il Brasile, sette volte l’Italia (tra cui lo storico Italia-Brasile 3-2 del Mondiale ’82, nda). Forse Gonella era migliore di me”.
Gonella perse il controllo della finale già nel tunnel di ingresso, tanto che il calcio d’inizio venne ritardato di dieci minuti. Il match fu durissimo, l’arbitraggio fu pavido più che scandaloso. Il resto è storia. Ezequiel Fernades Moores, ex sport editor dell’Ansa all’epoca di stanza a Buenos Aires, ha raccontato: “Ero in redazione la sera in cui l’Italia batté l’Argentina. Il clima nelle strade si fece rovente, nonostante la Selección era comunque riuscita a passare il turno. Scoppiarono incidenti, ci furono scontri. La gente reagiva, si sfogava. Non sarebbe mai successo in un’altra circostanza. Per questo la Junta aveva paura. Perdere la finale, o addirittura mancarla, significava non riuscire a domare il mostro che si sarebbe riversato sulle strade. Fecero tutto ciò che era nelle loro possibilità per scongiurare questa ipotesi”.