La Procura di Ivrea ha iscritto nel registro degli indagati 45 persone in relazione a eventi che sarebbero accaduti nel carcere della città negli ultimi anni. Vari i reati contestati, tra cui la tortura e il falso in atto pubblico. Gli investigatori sostengono che le indagini svolte abbiano portato a corroborare con elementi oggettivi le denunce che parlavano di celle di isolamento nelle quali le persone detenute venivano brutalmente picchiate e rinchiuse senza poter comunicare con anima viva, inclusi gli avvocati difensori.

Già in passato Antigone aveva presentato tre esposti per altrettanti presunti episodi di violenza che sarebbero avvenuti tra il 2015 e il 2016 sempre nel carcere di Ivrea. Il nuovo procedimento penale ha però due importanti differenze rispetto ai precedenti che vedono sotto indagine 25 persone. La prima è che adesso si indaga per il reato di tortura, che allora non poteva venire contestato in quanto introdotto nel codice penale italiano solo nel luglio del 2017, dopo decenni di inadempienza rispetto al contesto internazionale e dopo molte sollecitazioni da parte degli organismi sui diritti umani delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa.

La seconda differenza è che per la prima volta l’accusa di tortura viene mossa, oltre che a poliziotti, direttori e medici, anche a educatori penitenziari. Le figure che in carcere dovrebbero occuparsi di mettere in pratica un percorso risocializzante secondo lo scopo che la Costituzione affida alla pena.

La ‘cella liscia’, la ‘cella acquario’: tristi teatri di questi presunti accadimenti, luoghi oscuri dove non arrivano videocamere o altri sguardi e su cui il processo speriamo accerti le verità al più presto. Tristi compagne della ‘cella 24’ di Opera, della ‘cella zero’ di Poggioreale e, ancora, della ‘cella interrata’, della ‘cella nera’, della ‘cella frigorifera’ e via dicendo. I vari nomi che già in un articolo del febbraio 2014 il giornalista d’inchiesta Antonio Crispino ci spiegava riferirsi ad analoghe realtà in giro per le carceri d’Italia. Nello stesso articolo, Crispino riportava la seguente frase di un sindacalista autonomo della polizia penitenziaria: “I detenuti, ormai, l’hanno presa come una moda quella di denunciare violenze”.

Ecco, su questa ‘moda’ vorrei riflettere. In questo momento sono più di 200 gli operatori penitenziari sotto indagine, sotto processo o condannati in primo grado in procedimenti penali su torture e violenze nelle carceri italiane. Quindici anni fa, quando denunciare andava meno di moda in carcere, questo non accadeva. Ma probabilmente il livello di violenza dietro le sbarre non era inferiore a quello attuale. Semplicemente, le persone detenute non avevano il coraggio di denunciarlo. Non è facile denunciare in un ambiente chiuso, un ambiente totale, un ambiente dove lo spirito di corpo e l’omertà diffusa avevano abituato a non avere quasi mai giustizia e ad avere quasi sempre ritorsioni.

Qualcosa è cambiato. Il processo Cucchi, grazie alla costanza strepitosa della famiglia, ha per primo squarciato un velo. E l’inserimento del reato di tortura nell’ordinamento italiano ha costituito un segnale forte di legalità nei luoghi di custodia. Per quanto perfettibile quella legge possa essere, la storia attuale dimostra che sta funzionando. Gli indagati di Ivrea, così come tutti gli altri, sono presunti innocenti e come tali vanno guardati. Ma che si indaghi invece di archiviare, che si denunci invece di tacere, che si cerchi la verità invece di voltarsi dall’altra parte è comunque una buona notizia.

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