La Corte costituzionale dovrà stabilire se i pm fiorentini del procedimento Open hanno violato i diritti di parlamentare di Matteo Renzi, allegando agli atti dell’inchiesta e-mail e chat di quando lui era già senatore senza chiedere l’autorizzazione preventiva di Palazzo Madama. È la conseguenza diretta della decisione presa oggi dalla stessa Consulta di dichiarare ammissibile il conflitto tra poteri dello Stato sollevato dal Senato contro i magistrati di Firenze lo scorso 22 febbraio. Una pronuncia che potrebbe avere un riflesso sul processo Open: il giudice per l’udienza preliminare potrebbe decidere di sospendere l’udienza in corso a Firenze.
IL CASO OPEN – Lo scorso 22 febbraio il Senato aveva votato a favore del conflitto. A inizio febbraio i pm toscani avevano chiesto di processare l’ex presidente del consiglio e altri dieci indagati (compresi i deputati Maria Elena Boschi, e Luca Lotti, l’ex presidente di Open Alberto Bianchi, l’imprenditore Marco Carrai) per alcuni reati contestati a vario titolo: si va dal finanziamento illecito ai partiti alla corruzione, dal riciclaggio al traffico d’influenze. All’interno dell’indagine sono confluiti migliaia di documenti ottenuti dalla procura tramite una serie di perquisizioni e sequestri a carico di alcuni indagati. Tra questi ultimi – è il caso di sottolinearlo – non c’è Renzi, che non ha subito alcuna perquisizione personale. In caso contrario, essendo il leader d’Italia viva un parlamentare, i pm avrebbero dovuto chiedere l’autorizzazione preventiva alla Camera di competenza. Ma la procura di Firenze non aveva alcuna intenzione di perquisire Renzi. Il nome dell’ex premier, però, è saltato fuori in una serie di messaggi Whatsapp conservati nella memoria di cellulari sequestrati a terze persone. È bastato questo per scatenare l’ex premier.
LA CHAT – Il 7 ottobre 2021 Renzi aveva scritto all’allora presidente del Senato, Elisabetta Casellati, chiedendo di tutelare le proprie “prerogative costituzionali” che considera violate dagli inquirenti. L’oggetto della richiesta era lo stesso della denuncia contro i magistrati toscani inoltrata dal leader d’Italia viva alla procura di Genova, poche ore dopo aver appreso della richiesta di rinvio a giudizio ai suoi danni. Secondo l’ex segretario del Pd i pm avrebbero dovuto chiedere l’autorizzazione preventiva al Senato pure per sequestrare i messaggi presenti sul telefono cellurare di altre persone (non coperte dall’immunità parlamentare) che hanno avuto scambi con lui. Il caso è finito all’ordine del giorno della Giunta per le Immunità del Senato: Renzi, audito dall’organo parlamentare, ha specificatamente citato le chat Whatsapp con l’imprenditore Vincenzo Manes nel giugno 2018, cioè l’ormai noto scambio di messaggi in cui si parla del volo Roma-Washington da 135mila euro pagato dalla fondazione Open. Secondo il capo d’Italia viva il sequestro del cellulare di Manes, che conteneva lo scambio di messaggi con lui, viola le sue guarantigie parlamentari. Per Renzi, insomma, i pm avrebbero dovuto chiedere l’autorizzazione preventiva al Senato prima di sequestrare il telefono di persone non coperte dall’immunità parlamentare che hanno avuto scambi con lui. Questo perché secondo il capo d’Italia viva quei messaggi rappresentano una forma di corrispondenza. E per sequestrare la corrispondenza dei parlamentari serve l’ok della Camera di appartenenza. Che le chat Whatsapp equivalgono a corrispondenza è stato smentito più volte negli ultimi anni dalla Cassazione: in una serie di sentenze i giudici hanno spiegato che i messaggi Whatsapp rinvenuti in un telefono cellulare non rientrano nel concetto di “corrispondenza“, ma adesso la parola passa ai giudici della Consulta