Oggi vorrei che la morte di due donne ci facesse fermare a riflettere: Lea e Lilla.
Lea Garofalo sequestrata ed uccisa il 24 novembre del 2009 dall’ex marito e boss di ‘ndrangheta Carlo Cosco insieme ad un manipolo di infami complici. Lilla, Calogera per esteso, morta ieri, era la moglie di Giuseppe Borsellino e la mamma di Paolo – omonino del giudice -, uccisi da Cosa nostra nel 1992 per essersi rifiutati di cedere alle pressioni mafiose che avevano come obiettivo l’azienda di famiglia. Anche Lilla è da considerarsi vittima della violenza mafiosa perché, come scrivono i suoi famigliari sui social nel dare notizia della sua morte, da trent’anni non passava giorno senza che piangesse stringendo tra le mani il piccolo ciondolo contenente le fotografie dei suoi amori più grandi.
Lea invece aveva cercato di liberarsi dalla morsa fetida di una famiglia mafiosa. Aveva provato a trovare libertà per sé e per sua figlia rompendo coraggiosamente legami mortiferi ed affidandosi allo Stato in cerca di protezione e di riscatto. Lilla ha atteso per trent’anni verità e giustizia morendo senza nemmeno questa soddisfazione come purtroppo capita a troppi familiari. Lea dopo una vicenda travagliata lunga più di cinque anni, fatta anche di superficialità e negligenze quando non di criminali connivenze col potere mafioso, scriverà una lettera indirizzata al Presidente della Repubblica nell’aprile del 2009, una lettera che non sarà mai pubblicata. Una lettera drammatica che colpisce per lucidità (la stessa abbacinante lucidità delle pagine del diario di Rita Atria) e forza, nella quale Lea rivendica il valore della propria scelta e denuncia l’inadeguatezza dello Stato. Ne riporto un brano:
“Oggi mi ritrovo, assieme a mia figlia, isolata da tutto e da tutti. Ho perso tutto, la mia famiglia, ho perso il mio lavoro (anche se precario), ho perso la casa, ho perso i miei innumerevoli amici, ho perso ogni aspettativa di futuro, ma questo lo avevo messo in conto, ma sapevo a cosa andavo incontro facendo una scelta simile. Quello che non avevo messo in conto e che assolutamente immaginavo, e non solo perché sono una povera ignorante con a mala pena un attestato di licenza media inferiore, ma perché pensavo sinceramente che denunciare fosse l’unico modo per porre fine agli innumerevoli soprusi e probabilmente a far tornare sui propri passi qualche povero disgraziato sinceramente. Non so neanche da dove mi viene questo spirito, o forse sì, visti i tristi precedenti di cause perse ingiustamente da parte dei miei familiari onestissimi! Gente che si è venduta pure la casa dove abitava, per pagare gli avvocati e soprattutto, per perseguire un’idea di giustizia che non c’è mai stata, anzi tutt’altro! Oggi e dopo tutti i precedenti, mi chiedo ancora come ho potuto, anche solo pensare, che in Italia possa realmente esistere qualcosa di simile alla giustizia, soprattutto dopo precedenti disastrosi come quelli vissuti in prima persona dai miei familiari”.
Donne vittima di violenza mafiosa. Ma la violenza mafiosa è soltanto una declinazione di quella violenza così detta di genere, che altro non è che un riflesso odioso di una cultura maschilista e patriarcale che si è sempre caratterizzata col preteso dominio del maschio sulla donna e con la pretesa superiorità del maschio eterosessuale nei confronti del “diverso”. Le parole oscene del senatore Lucio Malan, che approfitta della bibbia per definire abominevole l’omosessualità, non sono diverse da quelle mafiose che usano, per definire a loro insindacabile giudizio i più infimi tra gli esseri umani, il dispregiativo “pigliainculo”. Parole che risuonano del medesimo retaggio culturale!
“Ogni volta che una donna non denuncia le violenze subite perché ha paura di non essere creduta è una sconfitta dello Stato”. Così in uno dei passaggi più forti del suo primo intervento ieri alla Camera della on. Elly Schlein. L’occasione è stata il dibattito parlamentare in vista della giornata contro la violenza di genere fissata il 25 novembre. Affermazione condivisibile: i dati, come si sa, sono terribili e dicono di una donna uccisa ogni 11 minuti nel mondo, di oltre 100 donne uccise in Italia dall’inizio dell’anno, per lo più da uomini appartenenti alla loro cerchia familiare. Ma ancora una volta, in Italia, questo diffuso modo cattivo di stare al mondo assume una forma specifica, quella mafiosa, che andrebbe maggiormente considerata nel complessivo discorso pubblico, anche perché soltanto così potranno prendere forma alcuni interventi legislativi ormai imprescindibili come la così detta “terza via”.