IL LATO OSCURO DEI MONDIALI – PUNTATA 6 – Rimet sognava un torneo che avrebbe “unito le nazioni, avvicinando i popoli e rendendo il mondo un solo grande paese”. Non è andata proprio così. Da Francia 1938 a Qatar 2022, la Coppa del Mondo è anche una storia di guerre, omicidi, imbrogli e regimi dittatoriali. Puntata dopo puntata, vi raccontiamo le storie emblematiche degli intrecci tra calcio e potere

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Ancora oggi non è raro imbattersi in sedicenti analisi sui calciatori africani forti fisicamente ma tatticamente indisciplinati. Un continente intero, con stili e caratteristiche diversi, ridotto a una enorme gomma da masticare nella quale vengono ruminati i più triti stereotipi. Facile immaginare come fosse la situazione negli anni ’70, quando al Mondiale si presentò lo Zaire (l’attuale Repubblica Democratica del Congo), prima nazionale dell’Africa centrale, e terza in assoluto del continente dopo Egitto e Marocco, a partecipare alla fase finale di una coppa del mondo. Ancora più facile immaginare reazioni e commenti quando un giocatore dello Zaire si staccò dalla barriera, durante un calcio di punizione a favore degli avversari, per colpire la palla e calciarla lontano. Uno dei gesti più politici nella storia dei Mondiali derubricato a burletta da chi non sapeva, non capiva e nemmeno ci provava. Sembra ancora di sentirli, mentre masticavano il loro chewingum sugli africani che nemmeno sapevano il regolamento di una partita di calcio.

Al momento della qualificazione a Germania Ovest 74 lo Zaire era una delle potenze calcistiche del continente, avendo vinto due Coppe d’Africa a distanza ravvicinata (1968, alla prima partecipazione in assoluto, e 1974) mentre dominava le competizioni continentali per club (tre Coppe Campioni africane vinte tra il ’67 e il ’73). Un’ascesa che aveva incrementato a dismisura le aspettative di Joseph-Désiré Mobutu, maresciallo-presidente dal potere assoluto rimasto alla guida del paese per 32 anni. Salito al potere nel 1965 grazie al sostanzioso aiuto degli Stati Uniti, Mobutu aveva inaugurato una radicale politica di “africanizzazione” del paese. I cittadini furono obbligati ad adottare nomi africani, negli uffici pubblici vennero imposti abiti tradizionali, le città furono rinominate (Leopoldville, ad esempio, divenne Kinshasa). Lo stesso Mobutu cambiò il proprio nome in Mobutu Sese Seko Koko Ngbendu Wa Zabanga, ovvero “Mobutu il guerriero che va di vittoria in vittoria senza che alcuno possa fermarlo”. Ai giocatori della nazionale in partenza per l’Europa chiese dignità, non vittorie. Promise loro un’auto e una casa. L’importante era non coprire di ridicolo il paese, che nei pensieri di Mobutu si sovrapponeva completamente alla sua persona. Fosse stato per lui non avrebbe nemmeno scelto un allenatore, perché convinto che la nazionale non ne aveva bisogno. Sarebbe bastata la sua presenza per ispirare i giocatori.

Con tali premesse, il rapporto tra Mobutu e il c.t. dello Zaire, lo slavo Blagoje Vidinic, non fu mai facile, e in Germania Ovest peggiorò ulteriormente, nonostante una onorevole sconfitta (2-4) all’esordio contro la Scozia. Ma per il guerriero abituato solo alla vittoria non era sufficiente e decise per una punizione immediata: niente stipendi e niente premi ai giocatori. Lo spogliatoio si ribellò. Intervistato dalla Bbc nel 2004, il terzino destro della squadra Mwepu Ilunga ricordò così la fine del sogno dello Zaire: “Prima di partire per il mondiale, Mobutu per noi era come un padre. Credevamo alle sue parole. Al termine della partita d’esordio lasciammo lo stadio in Bmw. Pensavamo tutti che saremmo tornati a casa milionari. Invece non vedemmo il becco di un quattrino. Io sono finito a vivere in miseria”.

I giocatori decisero di scioperare e solo dopo ore di trattative furono convinti a scendere in campo nella seconda partita contro la Jugoslavia. Ovviamente senza le condizioni minime necessarie, a livello psicologico, per disputare un incontro a un simile livello. Lo Zaire perse 9-0 eguagliando il primato della peggior sconfitta in un Mondiale. A fine gara scoppiò la bufera. Mobutu fece irruzione con le sue guardie del corpo nello spogliatoio, accusando Vidinic di aver spifferato le tattiche della squadra ai suoi connazionali slavi e lanciando un ultimatum ai giocatori: se contro il Brasile avessero perso con 4 o più reti di scarto, non sarebbero tornati a casa. Non è difficile immaginare lo stato d’animo che accompagnò in campo lo Zaire il 22 giugno a Gelsenkirchen per affrontare i campioni del mondo in carica. Fu quasi un allenamento per i brasiliani, che si imposero 3-0 senza strafare. Nel corso del match avvenne l’episodio che fece il giro del mondo. Durante un calcio punizione fischiato al Brasile, con tre giocatori sulla palla, prima del fischio dell’arbitro Ilunga uscì dalla barriera dello Zaire e calciò il pallone, allargando poi le braccia di fronte all’arbitro che gli mostrava il cartellino giallo.

Per anni il gesto di Ilunga è stato oggetto di scherno, in quanto percepito come il simbolo di un calcio africano considerato infantile e approssimativo. Difficile però sostenere che l’allora 25enne Mwepu Ilunga, terzino del TP Englebert (oggi TP Mazembe), una delle squadre più forti dell’intero continente (nel 1967 centrò addirittura la tripletta campionato-coppa nazionale-Coppa Campioni), nonché successivamente inserito nella top11 africana più forte di tutti i tempi, ignorasse le regole di base del calcio. Il suo fu un piccolo atto di ribellione. Contro chi dagli spalti derideva quei giocatori di colore in maglia verde con righine gialle; contro i brasiliani che facevano accademia senza infierire, e nemmeno così lui e i propri compagni riuscivano a combinare qualcosa di buono; ma soprattutto contro Mobutu, le sue false promesse, il clima intimidatorio che aveva creato all’interno della squadra, la frustrazione di vedere il sogno di una vita agiata sgretolarsi in pochi giorni sotto il peso della menzogna e delle minacce. Ilunga gridò il suo “basta!” in mondovisione.

I giocatori dello Zaire rientrarono a Kinshasa di notte nell’indifferenza generale. Non ci furono né premi né riconoscimenti, solo porte chiuse. Mobutu cancellò i contratti che li legavano ai rispettivi club, e anche solo trovare una squadra in cui giocare divenne difficile. Ai membri più anziani della squadra non fu consentito diventare allenatori perché nessuno voleva ingaggiare persone che, secondo il dittatore, “avevano portato il calcio africano indietro di vent’anni”. Ilunga e compagni hanno potuto raccontare la loro storia a partire dal 1997, anno in cui Mobutu fu costretto alla fuga da una sollevazione popolare nella quale sarebbero stati uccisi (ma la notizia non è mai stata confermata) anche due ex nazionali del Mondiale ’74. Ovviamente è stato Ilunga il più ricercato dagli storytellers, per via di quei cinque secondi di fama così poco compresi all’epoca. Allo scrittore inglese Jon Spurling disse che, potendo tornare indietro, avrebbe preferito lavorare duramente per diventare un contadino piuttosto che giocare una coppa del mondo.

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