Cinema

Tori e Lokita, l’ennesimo pugno nello stomaco dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne

Un film amaro, spietato, recitato con una naturalezza infantile e preziosa. Oggettivamente un unicum nella storia del cinema che, ogni volta, si rinnova con deviazioni più o meno ispirate in fase di raccolta informazioni dalla realtà (qui minori stranieri isolati in esilio) e scrittura modello neorealismo italiano del dopoguerra

di Davide Turrini

Tori e Lokita è l’ennesimo pugno nello stomaco dei fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne. Impossibile mollarlo un attimo, questo film. Impossibile uscire emotivamente dallo choc appena dopo la visione e anche dopo qualche giorno. Il cinema dei Dardenne è questa roba qui: prendere o lasciare. Stavolta ci sono echi sfruttatori dal dimenticato La promesse e un’esasperante crudezza nell’esposizione realistica degli ultimi che lascia senza fiato. Immergendosi nella quotidianità a strappi dell’undicenne Tori e dalla sedicenne Lokita, due ragazzini che hanno superato il Mediterraneo insieme su un barcone, e che ora sono costretti in una cittadina belga a fare da spacciatori per uno squallido cuoco di un ristorante italiano e ad essere continuamente derubati da una coppia di africani, capi di una chiesa del quartiere, i Dardenne non dimenticano mai, oltre il cosiddetto impegno, oltre l’umanità che traspare dal loro sguardo vigile, l’idea che la costruzione della suspense possa accompagnarsi al tema politico. Oggettivamente un unicum nella storia del cinema che, ogni volta, si rinnova con deviazioni più o meno ispirate in fase di raccolta informazioni dalla realtà (qui minori stranieri isolati in esilio) e scrittura modello neorealismo italiano del dopoguerra.

Dicevamo di questi due ragazzini, lei alta e cresciuta, lui piccoletto e guizzante; lui sempre in movimento, lei costretta a non muoversi. Per farli stare nella stessa inquadratura i Dardenne mettono per una volta da parte la sempiterna “semisoggettiva” e alzano la cinepresa di qualche centimetro oltre la convenzionale frontalità, riducendo minimamente l’angolazione della stessa di mezzo grado verso il basso. Banditi i campi lunghi e lunghissimi, dopo poche sequenze in cui comprendiamo il patto indissolubile tra i due per risultare fratello e sorella, l’affetto e il supporto amicale che vivono l’uno per l’altro (il toccante karaoke con Alla fiera dell’est di Branduardi), ecco che la gabbia dello sfruttamento sui due migranti minorenni si stringe drasticamente. Lokita dovrà rimanere senza telefono e contatti con l’esterno per tre mesi da sola rinchiusa in un capannone industriale dove coltiverà in un caldo infernale tonnellate di cannabis. Solo così, e concedendosi sessualmente al suo cuoco aguzzino, potrà avere i soldi per ripagare l’agognato documento che le permetterà di rimanere in Belgio accanto a Tori. Ma l’intraprendenza del ragazzino per liberare l’amica del cuore si trasformerà in tragedia. Le maglie dell’oppressione fisica e psicologica sui protagonisti in Tori e Lokita sono talmente asfissianti, prive di sbocchi salvifici concreti, materialmente violentissime, che sembra essere dinanzi ad uno scontro frontale tra i romanzi di Dickens e le parabole di Von Trier. Un film amaro, spietato, recitato con una naturalezza infantile e preziosa da due attori alle primissime armi – Pablo Schils (Tori) e Joely Mbundu (Lokita) – capaci di infondere dosi di istantaneo realismo su una tavolozza di colori paradossalmente vivace e il lancinante dolore di un’esistenza sotto ricatto da cui si può sperare di uscire aiutandosi a vicenda.

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