Il calo delle quotazioni del petrolio del 10% nelle ultime due settimane ha portato qualche sollievo agli automobilisti. Sollievo che rischia di essere velocemente offuscato dall’imminente riduzione dello sconto fiscale deciso dal governo Meloni. La benzina si compra oggi in modalità a 1,68 euro al litro mentre il gasolio è, in media, a 1,77 euro. Permane quindi questa insolita situazione con il gasolio che costa sensibilmente di più della benzina. Perché? Il gasolio è il prodotto raffinato dal petrolio che ha uno spettro di impieghi molto più ampio rispetto alla benzina. Lo usano i camion, le navi, i treni, macchine industriali e per le costruzioni e l’agricoltura. Per avere un termine di paragone in Italia si consuma, solo per l’autotrazione, una quantità di gasolio tripla rispetto alla benzina.
Ed è anche utilizzato per il riscaldamento e, in alcuni paesi, per produrre elettricità. Il prezzo del diesel è sotto pressione in tutto il mondo. Secondo calcoli citati dall’agenzia Bloomberg solo negli Stati Uniti è stimabile un impatto da 100 miliardi di dollari (96 miliardi di euro). Le riserve sono ai minimi ovunque, paesi come il Pakistan hanno iniziato a chiudere attività per la carenza di carburante. L’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) ha avvertito che quella del gasolio potrebbe essere la prossima crisi che dovrà affrontare l’Europa nell’ambito di un mercato che sta diventando sempre più “sottile” per effetto delle sanzioni alla Russia. “È certamente la più grande crisi del diesel che abbia mai visto”, dice a Bloomberg Dario Scaffardi, ex numero uno della raffineria Saras della famiglia Moratti. Una tensione che si ripercuote inevitabilmente sui prezzi, un barile di diesel (non il prezzo alla pompa) costa oggi il 70% in più di un anno fa e la differenza rispetto al costo della materia prima, il petrolio, è quintuplicata.
Durante la pandemia gli impianti di raffinazione più obsoleti e meno redditizi sono stati dismessi, la transizione verso fonti rinnovabili ha ridotto gli investimenti nel settore. Come risultato, solo negli Stati Uniti, la capacità di raffinazione giornaliera si è ridotta di un milione di barili, a livello globale la contrazione è stata di 3,5 milioni di barili. Naturalmente la guerra in Ucraina ha fatto precipitare una situazione già difficile. L’Europa è molto dipendente dal diesel, ogni anno importa circa 500 milioni di barili che, per lo più, provenivano dalla Russia. Da febbraio entreranno in vigore nuove sanzioni contro Mosca che dovrebbero ridurre ulteriormente le forniture di gasolio russo all’Europa. Parte di queste forniture sono già state rimpiazzate da spedizioni che arrivano dalla Cina e dall’India. Al di là del fatto che non di rado si tratta di prodotti ottenuti raffinando petrolio russo, si tratta di carichi comunque sensibilmente più costosi rispetto alle forniture del passato. In questo momento l’unico fattore calmierante sui prezzi è il rallentamento della crescita economica, a cominciare da quella cinese, che induce una riduzione dei consumi.
In Italia il problema potrebbe presto aggravarsi con lo stop della raffineria Lukoil di Priolo, in Sicilia. Da qui proviene circa un quinto dei prodotti raffinati consumati nel paese ma l’impianto è di proprietà russa. Al momento non è quindi in grado di comprare petrolio da altri paesi e si rifornisce unicamente dalla casa madre. Il prossimo 5 dicembre, con l’entrata in vigore dell’embargo sul petrolio russo, anche questo flusso potrebbe esaurirsi, a quel punto la raffineria sarebbe in grado di continuare a produrre solo per poche settimane. Una situazione non troppo diversa interessa due raffinerie tedesche, il governo di Berlino ha già avvisato del pericolo di una carenza di gasolio (e di kerosene per gli aerei) nei prossimi mesi e valuta nazionalizzazioni. Se per i paesi occidentali questa situazione significa soprattutto il rischio di dover pagare prezzi molto più alti di prima per assicurarsi le forniture, per nazioni economicamente meno solide il rischio è quello di rimanere letteralmente a secco e bloccare quindi attività produttive e mobilità. Oltre al già citato Pakistan ad essere in seria difficoltà sono anche Sri Lanka, Vietnam e Thailandia.
Gli adepti del “sacro mercato” amano ricordare che “il rimedio per i prezzi alti sono i prezzi alti”. Nel senso che le prospettive di guadagno attirano nuovi investimenti che ampliano l’offerta e quindi allentano la pressione sui prezzi provocandone una discesa. Contemporaneamente chi consuma sceglie più facilmente alternative o riduce l’utilizzo, alleggerendo la domanda. È un gioco di equilibrio in cui si cimentano abitualmente i grandi paesi produttori di greggio ma che, in questo caso, sembra difficile possa funzionare senza intoppi. Troppi i fattori in gioco che non dipendono da questioni prettamente economiche e di difficile prevedibilità.