Ci siamo mai soffermate a pensare quanto la rivoluzione digitale abbia inciso sulla vita delle donne? Io non lo avevo mai fatto prima, ma la lettura del saggio La Rete non ci salverà (Longanesi ed.) di Lilia Giugni (ricercatrice associata a Cambridge) mi ha aperto le porte di un mondo di cui, ammetto, conoscevo ben poco. Come tante, credo, l’attenzione rispetto alla rivoluzione digitale e all’impatto che questa ha avuto sulle donne era sempre stata concentrata sulle molestie e le minacce on line di cui tutti i giorni sentiamo parlare, o di cui magari siamo state anche vittime.
Offese e insulti sessisti sui social, informazioni e immagini intime condivise senza permesso e incursioni su riunioni zoom sono un campionario che ormai conosciamo molto bene e che non risparmia nessuna: giovani e meno giovani, studentesse, politiche, giornaliste e qualunque donna che si “permette” di dire la sua, specialmente su temi femministi. Il patriarcato, sappiamo bene, è forte anche sul web. Quello che invece non conoscevo, o ne avevo sentito parlare in modo molto superficiale, è quanto la rivoluzione digitale, le nuove tecnologie e piattaforme investono in modo pesante non solo le utenti, ma chi a vari livelli lavora nell’ambito della rete; quanto programmatrici, sviluppatrici, influencer e altre figure del settore tecnologico siano discriminate, vessate e sfruttate, quanto il lavoro flessibile e l’autonomia di queste lavoratrici, che spesso lo scelgono proprio per queste prerogative, sia solo un miraggio; quanto le disparità salariali siano, a tutti i livelli, molto più ampie di quanto già non sono in tanti altri campi lavorativi.
Per non parlare poi dell’affermazione dell’intelligenza artificiale nei sistemi di profilazione che pervadono ormai ogni aspetto della nostra vita e che producono discriminazioni algoritmiche presenti in svariati campi economici e sociali: un esempio la selezione del personale da assumere usando l’algoritmo che in teoria dovrebbe eliminare stereotipi e discriminazioni, ma che in realtà produce spesso discriminazioni perché utilizzata in base alle informazioni in possesso delle piattaforme, sulla base del genere, etnia, classe sociale, religione e provenienza geografica.
Ma non solo, un altro aspetto da molti sconosciuto è quello relativo allo sfruttamento di chi lavora nell’ambito dell’estrazione di quei materiali che sono essenziali per produrre smartphone, tablet, computer e tutti gli strumenti tecnologici di cui ormai nessuno di noi può fare a meno, donne nella maggior parte dei casi.
Stupri e violenze indicibili vengono commessi ai danni di donne che lavorano per compensi da fame per l’estrazione di cobalto, di coltan o tantalio, componenti essenziali alla produzione di gadget tecnologici, per affermare il controllo da parte di fazioni armate dei Paesi africani, così ricchi di questi minerali. Nel libro conosciamo le storie di Mirindi, di Mamie, di Cecile che sono solo alcune delle centinaia di storie di brutalità e violenza da collegarsi indissolubilmente alla transizione digitale perché il capitalismo digitale si è inventato vari modi di mettere a profitto la violenza sessuale.
L’intreccio fra la violenza sessista e le enormi disuguaglianze di genere provocate dalla rivoluzione digitale, anche rispetto alla loro distribuzione sociale e geografica, sembrano fenomeni distanti tra loro, ma sono invece legati da un filo invisibile di relazione tra tecnologia, capitalismo e patriarcato. Assodato che la tecnologia tutto è tranne che neutrale, dal punto di vista del genere, quali strumenti usare per distruggere la casa del padrone? Gli stessi suoi attrezzi? Oppure non è fattibile come diceva la pensatrice afroamericana Audre Lorde usare gli attrezzi che al padrone appartengono?
Lilia Giugni ci presenta un decalogo di proposte, scelte che tutti noi possiamo compiere, mobilitazioni a cui possiamo aderire, percorsi per prevenire la violenza digitale, per cercare di responsabilizzare le piattaforme social, per aiutare le lavoratrici tech a difendere i loro diritti, a non sminuire l’importanza del gap digitale di genere e tanti altri spunti che non sono certo la panacea, ma che possono contribuire a rendere più democratica, più equa la rivoluzione digitale.