di Susanna Stacchini
In occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, oltre alle molte iniziative lodevoli, ci sono ancora salotti in cui la cosa determinante è arricchire di particolari accattivanti, storie drammatiche di donne disperate. E’ vittimizzazione secondaria. La violenza che la donna subisce per una seconda volta, non dal suo persecutore, bensì dalla società in genere, si definisce tale, perché “viene dopo”, non perché non grave.
E’ vittimizzazione secondaria descrivere il delinquente di turno, come uomo tranquillo, tutto lavoro e famiglia, accreditando come ipotesi più plausibile, alla base del comportamento violento il “troppo amore” verso la compagna o ex compagna che sia, e se arriva ad ammazzarla, per il solito assunto tirare in ballo il fatidico “raptus di gelosia”. Come lo è, l’espressione “ma lui è stupido”, oppure “ma lui è matto”, dando così del delinquente al “matto vero” che oltre la malattia, deve sopportare il peso di un accostamento tanto infamante. Oppure ancora, definire litigio o discussione un’aggressione.
Fa vittimizzazione secondaria l’azienda che invece di tutelare, colpevolizza la propria dipendente, per aver denunciato le violenze subite in ambiente di lavoro. E’ vittimizzazione secondaria, voltarsi dall’altra parte, fingendo di non vedere e sentire. E’ vittimizzazione secondaria dare la notizia delle donne uccise a Roma definendole prostitute o escort e non donne. E’ vittimizzazione secondaria sbattere la donna in prima pagina, in un articolo di giornale dal taglio pressoché scandalistico.
E’ vittimizzazione secondaria, ai danni delle donne che vivono in regimi totalitari, aver deciso di disputare i mondiali di calcio in Qatar, aver accettato di partecipare e aver pagato diritti tv. Quest’anno calciatori, arbitri, allenatori e tutti coloro che fanno parte dei vari staff, non potranno sfoggiare l’ormai popolare fregio rosso sulla guancia. E’ vittimizzazione secondaria seguire profili social in cui l’autore offende, diffama e minaccia la sua vittima.
Non posticipiamo oltre, sollecitiamo ora le nostre coscienze, su quello che è il nostro personale approccio al fenomeno della violenza sulle donne ed impariamo a codificare la vittimizzazione secondaria in tutte le sue possibili espressioni, anche a costo di riconoscersi in quelle condotte. Illuderci che sia ad appannaggio esclusivo delle forze dell’ordine, Giudici e Avvocati nelle aule di Tribunale, non ci aiuterà.
E’ vero: è frequente che la donna, sia in corso di indagini che durante il dibattimento, non venga adeguatamente accolta e creduta. Spesso si tenta di metterla sotto accusa e in cattiva luce, per sollecitarne il giudizio morale, da usare come attenuante per l’imputato. Ma la vittimizzazione secondaria ancora più subdola e dilaniante viene esercitata nella vita di tutti i giorni da coloro che credeva amici, da conoscenti, parenti, colleghe e colleghi di lavoro. E’ una forma di violenza infida e vile che si insinua in una già grave condizione di fragilità. La donna viene isolata e giudicata, tanto da farla sentire corpo estraneo nella sua comunità che le si manifesta ostile e respingente.
La gente dibatte nelle piazze, per strada, al bar, nelle case e nei posti di lavoro, sulla tenuta morale della donna, arrivando a rivendicare un’equidistanza che non può esistere, fra l’uomo violento e la donna maltrattata. Si discerne sui suoi comportamenti, su quanto ha sbagliato e sul fatto che avrebbe dovuto pensarci prima. Si creano covi di spara sentenze, della serie “prima se la cerca e poi si lamenta”.
Il tessuto sociale tutto, di lì a breve fa sfoggio del pregiudizio di cui è impregnato, perdendo completamente di vista, quella che è stata l’azione criminale esercitata ai danni della donna che per paradosso, da vittima diventa carnefice, con l’inevitabile acuirsi del sentimento di rovina e vergogna. Quindi è fin troppo evidente, quanto in un contesto del genere, nessuno possa sentirsi scagionato a prescindere.