Che rapporto hanno i vip con la tecnologia? Lo scopriremo in una serie di interviste "tech". Iniziamo con Luca Barbarossa
Trovare un’opinione netta, quanto più radicata possibile. E alla svelta, anche. Non ha avuto tempo di formarsi? Meglio, così se ne può usare una che già esiste e tenersela stretta. È un gioco facile – pericoloso – che vale per tutto, tecnologia compresa. Lei corre, e che corrano anche le opinioni, dunque.
“Io con la tecnologia non ho un rapporto ideologico, cerco di avere una posizione di equilibrio”: le prime parole di Luca Barbarossa davanti a un caffè creano un sussulto. Non ci siamo mica più abituati, alle considerazioni ponderate. E invece questo può succedere quando cambiano gli strumenti, la velocità, le infrastrutture e tu, da essere umano, cerchi di capire cosa farci. Cosa tenere, cosa lasciare. Dove alzare le mani, eventualmente.
“Ti faccio un esempio partendo dalla musica. È chiaro che mi faccia comodo poter fissare le idee su un computer, ma sono un uomo del secolo breve: uso i programmi di registrazione come prima usavo il nastro, chitarra e voce. Poi passo il tutto a chi sa gestire quel materiale”. Cantautore classe ’61 e conduttore radiofonico – dal 2010 al timone di Radio2 Social Club – inizia a descrivere il suo funambolismo tech partendo dagli oggetti della quotidianità. Perché la tecnologia è come la politica, a pensarci: puoi anche disinteressartene, ma poi sarà difficile poterne conoscere gli strumenti e, quindi, decidere cosa farci.
Computer, segnato. Passiamo allo smartphone: notifiche attive?
Zero. Ti dico la verità, persino WhatsApp lo tengo giusto per le chat di lavoro qui alla radio, o quelle per organizzare le partite di padel (fervido e valido tennista, ritiene che il padel sia “molto più divertente”, nda).
No alle notifiche push: segnato.
Quello che ho notato a un certo punto è che il telefonino – che poi telefonare è l’ultima delle funzioni che ha, ormai – è un oggetto che quasi nessuno riesce a gestire bene.
Con tanti figli, quando facciamo le cene in famiglia, abbiamo preso questa decisione di non portare i telefoni a tavola. Ammetto che sono venute fuori cene bellissime. È un consiglio che vorrei dare a tutte le famiglie che si vogliono bene, un esperimento interessante. Giuro che poi ci si raccontano delle cose! Si ride, si scherza. E si fa sul serio, chiaramente, quando c’è da farlo.
Sì al dispositivo, ma con misura.
Non sono un pasdaran, cerco di trovare una misura e restituirla alla vita.
E i video che confeziona in autonomia con le foto salvate, sono un’invasione o un’opportunità?
Ah, quelli mi piacciono! Quei montaggi musicati mi fanno piacere. Incameriamo molto, conservando immagini e video che vatteli a ricordare. E invece ogni tanto ti viene fuori la vacanza che hai fatto cinque anni prima, oppure qualche ricordo legato ai figli.
Approvati, dunque.
Sai perché? Perché io la rimpiango l’assenza di tecnologia. I miei si sono separati che ero molto piccolo e loro molto giovani. All’epoca o potevi permetterti una macchina fotografica o un servizio dal fotografo, oppure niente. Non esiste una foto che mi ritragga da piccolo con mia madre e mio padre e me ne dispiaccio.
Del rapporto tra la tecnologia e la memoria potremmo parlare per ore.
Un altro esempio: ho pubblicato un libro di sessanta racconti autobiografici (“Non perderti Niente”, Mondadori, nda) e uno di questi riguardava il concerto che feci ad Agnano alla fine degli anni Ottanta. A quel concerto, dietro la colonna di palco con il fonico, c’era Maradona, per me fu incredibile. Ballò tutto il tempo e uscì sul palco al bis, su “Roma Spogliata”. Non avevo un’immagine che ricordasse quei momenti. Insomma, ho provato su Facebook – sapendo che lo usiamo solo noi anziani! – a chiedere se qualcuno avesse per caso una foto di quell’evento. Non ci sono riuscito, ma ecco, mi avrebbe fatto molto piacere.
C’è altro?
Devo dire grazie ai navigatori, che ancora mi salvano per le strade di Roma.
Quale app?
Ah, mica lo so! Attivo il comando vocale, Siri risponde, io lo tengo nella tasca in alto del giacchino mentre guido lo scooter e via, arrivo dove devo.
Ripensando a tutto, cene senza telefono comprese, con i figli non deve essere facile trovare l’equilibrio generazionale.
Ho dei figli anomali, devo dire. Uno ama il surf, vivere nella natura e ha scelto di studiare in Portogallo, vicino al mare. Usa il computer per fare quel che deve, fine.
L’altro vive nell’Ottocento, se solo lo potesse fare, andrebbe in giro a cavallo. Tutto Chopin e Brahms. Da ragazzino l’ho “salvato” dalla Play Station, ma a ragion veduta. Aveva gli incubi notturni e il giorno dopo gli ho detto che quel dispositivo sarebbe stato uscito da casa nell’imballaggio in cui era arrivato.
E con la più giovane, teenager nel 2022, come la mettiamo?
Con la più piccola non ci siamo riusciti, cedendo all’ansia del genitore sulla reperibilità dei figli. Però stiamo attenti. È chiaro che abbia il telefono per le videochat con le amiche per studiare – so che i compiti sono un pretesto, ma tant’è – ma anche in quel caso, non si porta il telefono in camera prima di dormire. Come la patente, non puoi prenderla anzitempo: arrivano troppe cose difficili da gestire, venirne a capo dopo è come svuotare l’oceano con una tazzina da caffè. È bravissima a fare le foto, proviamo solo a scongiurare i primi piani con la boccuccia da selfie.
Barbarossa, se esistesse solo una cosa da portare sull’isola deserta ho come l’impressione che non sarebbe un oggetto tech.
Sceglierò sempre la chitarra, son sempre io: morirò di fame, sì, ma cantando.