di Paolo Bagnoli
Il governo di Giorgia Meloni, carente di programma e pure di classe politica adeguata non lo è, invece, sul piano delle dimostrazioni tese a testimoniare che alla guida del Paese è arrivata, finalmente, un’Italia diversa da quella che conosciamo. Così, le dichiarazioni dei ministri si sprecano, la presidente del Consiglio che ci sembra più insicura di quanto non voglia apparire – le continue riunioni dei capigruppo della maggioranza lo testimoniano – ribadisce sempre le virtù del governo di destra e adopra spesso la parola “nazione” chiaramente senza sapere cosa significhi. Crediamo perché la ritenga la mamma del nazionalismo che costituisce l’anima del partito di cui è la leader. A Fratelli d’Italia dovrebbe affiancarsi la Lega – visti i trascorsi del salvinismo – la quale, invece, con il regionalismo differenziato, così come è stato concepito, non solo avanza una proposta anticostituzionale, ma evolve il proprio sentire nazionale in sovranismo regionalista.
Il nazionalismo tradotto in politica gestionale degli immigrati ha portato non solo allo scontro con la Francia, ma ad una marginalità dell’Italia in Europa. Sembra quasi sia stata ricercata considerato l’errore, strategico per un Paese fondatore dell’Europa, di siglare un documento in materia con Cipro, Malta e Grecia che configura una specie di Visegrad mediterranea contrapposto all’ europeismo dei francesi e degli spagnoli. Per inciso aggiungiamo che qualcuno dovrebbe pure dire al ministro Matteo Piantedosi che non è più il capogabinetto di Salvini, bensì il titolare degli Interni.
Ora, al di là del capire quali saranno i passi concreti del governo ancora presentantesi, in quanto guidato da un’esponente che viene dalla storia della destra fascista, come l’espressione di una rivincita sulla storia repubblicana del nostro Paese, ciò che si avverte è che il vento “culturale” sta cambiando: dalle lettere del ministro Giuseppe Valditara, alle intenzioni di come si vuole muovere Eugenia Roccella, al rilancio del presidenzialismo come ha fatto il ministro Francesco Lollobrigida appena nominato, alle dichiarazioni del presidente del Senato la cui carica dovrebbe imporgli riserbo e un distacco dalla politica politicata, si comprende con cosa il Paese si trova a fare i conti. Nessuno chiede sconti alla destra, ma sarebbero più che mai opportuni anticorpi politici reali da parte di chi di destra non è e che vede con preoccupazione quanto sta avvenendo e quanto si profila per il prossimo immediato.
In tale quadro si inserisce, tra le altre, una questione del massimo rilievo. Nella dicitura del ministero dell’Istruzione, l’inserimento del merito ha sostituito l’aggettivo “pubblica” accanto alla parola istruzione. La questione non è di natura nominale e non si tratta di un dettaglio poiché, in tal modo, scompare il dovere istituzionale della Repubblica di dare – secondo quanto sancito dall’articolo 34 della Costituzione ove pure è menzionato il merito – un’istruzione a tutti. Così operando, invece, si punta solo sulle capacità individuali. Si stravolge l’idea di scuola propria della Repubblica scomparendo coloro che culturalmente partono svantaggiati.
Chissà, se fosse stato in vita, cosa avrebbe detto don Lorenzo Milani di cui l’anno prossimo cadrà il centenario della nascita. Don Milani, infatti, aveva dimostrato in maniera semplice e ferma, come dietro la teoria del merito si nasconda quasi sempre il classismo della scuola nonché della società. Ci auguriamo che la ricorrenza non venga persa o cada nella retorica poiché, visti i tempi, la sua lezione è veramente di stringente attualità.